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Un altro giro un’altra corsa: la giostra dei Ministeri

Sandro Colombi, Segretario generale UILPA

Sebbene sia quasi passato sotto silenzio sulla cosiddetta stampa di qualità il decreto-legge 1° marzo 2021, n. 22 (convertito dalla legge 22 aprile 2021, n. 55 – G.U. 29 aprile 2021, n. 102) ha introdotto diverse novità importanti nell’assetto organizzativo delle Amministrazioni centrali dello Stato. Novità che impattano notevolmente sulla quantità e sulla qualità dei servizi offerti ai cittadini e coinvolgono sia la vita professionale e dei lavoratori sia l’organizzazione delle strutture interessate. Vediamo in sintesi i principali contenuti e le criticità.

Con l’art. 1 vengono modificate le disposizioni del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, che fissano il numero massimo dei Ministeri e ne definiscono l’elenco. I Ministeri passano da 14 a 15 per effetto dello scorporo del Ministero del turismo dal Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo. Il quale a sua volta cambia nome e diventa Ministero della cultura. Il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare viene sostituito dal Ministero della transizione ecologica (MITE), che assorbe anche le funzioni in materia di politica energetica e mineraria sinora svolte dal Ministero dello sviluppo economico. Infine, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti cambia nome e diventa Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili (art. 5). Per la cronaca, sono anni che le competenze di questi (e di altri) Ministeri si allargano e si restringono, si spostano e ritornano indietro senza trovare un assetto definitivo. Il tutto ovviamente a spese della collettività, dal momento che ogni passaggio comporta costi non trascurabili in termini organizzativi, di gestione di risorse umane e strumentali.

Il caso del Turismo è eclatante: solo per citare le ‘transizioni’ più recenti, nel 2013 il Turismo, che prima era sotto l’egida della Presidenza del Consiglio, viene incorporato nel Ministero dei beni culturali MIBAC, che diventa così MIBACT (Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo); nel luglio 2018 il governo Conte I trasferisce le competenze in materia di turismo dal MIBACT al MIPAAFT (Ministero delle politiche agricole alimentari, forestali e del turismo). Ma nel settembre 2019 il governo Conte II riporta nuovamente il turismo al Ministero dei beni e delle attività culturali. Ora ritorna ad essere un Ministero a sé (articoli 6 e 7), come d’altronde era stato fino al 1994, allorché fu soppresso come ministero autonomo per effetto di un referendum abrogativo tenutosi l’anno precedente.

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L’art. 2 è dedicato interamente a definire i compiti e le funzioni del Ministero della transizione ecologica (MITE), che prende il posto del Ministero dell’ambiente. Non si tratta però di un semplice cambio di denominazione. I compiti del nuovo dicastero sono molto più vasti e complessi e ricomprendono temi come la sostenibilità ambientale, la sicurezza nucleare, le agro-energie, ecc.  L’operazione si accompagna a una profonda ristrutturazione interna dell’amministrazione, sia in termini organizzativi che di risorse umane. Al riguardo, va segnalato che, in base alle “disposizioni transitorie” contenute nell’art. 3, due Direzioni generali del Ministero dello sviluppo economico vengono trasferite al MITE con tutte le risorse umane, strumentali e finanziarie, per l’esercizio di funzioni in materia di politica energetica e mineraria nazionale.

Anche senza considerare il fatto che il trasferimento di due direzioni generali da un Ministero all’altro è un’operazione complessa sul piano della gestione funzionale e organizzativa e che come minimo richiede mesi, se non a volte anni, va comunque evidenziato che siamo in presenza di una mobilità d’ufficio che coinvolgerà un numero ancora imprecisato di dipendenti, da individuare entro il 1° giugno con specifico provvedimento governativo. Nelle more (e comunque fino al perfezionamento burocratico del trasferimento) il Ministero della transizione ecologica può “avvalersi delle competenti strutture e dotazioni organiche del Ministero dello sviluppo economico”. Insomma, una situazione a dir poco confusa che si scarica sui lavoratori.

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La situazione è resa ancor più preoccupante dal fatto che spesso le scadenze fissate per l’emanazione dei decreti attuativi (in questo caso 90 giorni) non vengono rispettate dal legislatore di turno. Un’altra criticità è rappresentata dalla disposizione (collegata alle precedenti) secondo cui al personale trasferito “si applica il trattamento economico, compreso quello accessorio, previsto nell’amministrazione di destinazione e viene corrisposto un assegno ad personam riassorbibile pari all’eventuale differenza fra le voci fisse e continuative del trattamento economico dell’amministrazione di provenienza, ove superiore, e quelle riconosciute presso l’amministrazione di destinazione”.

È quindi essenziale che tutta l’operazione sia attentamente seguita e monitorata dal sindacato, per verificare che il trasferimento non porti a una penalizzazione retributiva differita, a causa della riassorbibilità dell’eventuale differenziale economico riferito alle voci fisse e continuative.  Nello stesso tempo, da parte del sindacato occorre la massima capacità di presidio per assicurare che sia garantito il previsto adeguamento dell’indennità di amministrazione del personale non dirigenziale del Ministero della transizione ecologica.

Passiamo adesso ai due articoli che istituiscono nuovi organismi tecnico-politici a livello governativo per gestire le due grandi trasformazioni che attendono il Paese nei prossimi anni: quella ecologica e quella digitale.

Con l’art. 4 viene istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri il Comitato Interministeriale per la transizione ecologica (CITE). Tale Comitato ha il compito di “assicurare il coordinamento delle politiche nazionali per la transizione ecologica e la relativa programmazione”. Presieduto dal Presidente del Consiglio (o in sua vece dal Ministro della transizione ecologica), il CITE è composto da 6 Ministri: Transizione ecologica, Economia e finanze, Sviluppo economico, Infrastrutture, Lavoro, Politiche agricole. Ma possono partecipare gli altri Ministri “aventi competenza nelle materie oggetto dei provvedimenti e delle tematiche poste all’ordine del giorno”. Nasce insomma una nuova struttura decisionale di livello politico ‘alto’, una specie di mini-Consiglio dei Ministri il cui compito principale è quello di elaborare e approvare entro il 1° agosto 2021 un “Piano per la transizione ecologica” (con tanto di parere della Conferenza Unificata e delle Commissioni Parlamentari competenti), che servirà per coordinare le politiche in materia di riduzione delle emissioni di gas climalteranti, mobilità sostenibile, contrasto del dissesto idrogeologico e del consumo del suolo, risorse idriche e relative infrastrutture, qualità dell’aria ed economia circolare, nonché di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici, bioeconomia circolare e fiscalità ambientale.

Nel nuovo Piano (a proposito: ma non dovevamo snellire le procedure e semplificare la burocrazia?) saranno indicate, per ciascuna Amministrazione, le azioni da intraprendere, le misure da adottare, le fonti di finanziamento e il cronoprogramma da rispettare. A fianco di questa struttura politica ‘alta’ si prevede la creazione (con successivo provvedimento governativo) di una corrispondente struttura tecnica, ossia il “Comitato tecnico di supporto del CITE”, del quale faranno parte un rappresentante della Presidenza del Consiglio e uno per ciascuno dei Ministeri di cui sopra, il cui compito sarà quello di “istruire le questioni all’ordine del giorno del CITE”. Tradotto dal politichese: un gruppo di esperti designati dai vari Ministeri (non è spiegato con quali criteri) esaminerà tutte le tematiche di competenza del CITE e svilupperà le proposte che confluiranno nel Piano per la transizione ecologica, che il CITE approverà. Toccherà poi alle amministrazioni dare concreta attuazione – ciascuna per la parte che le verrà assegnata – alle misure indicate nel Piano.

Senza voler svilire il senso un’iniziativa che appare animata dall’intenzione di implementare e coordinare al meglio le politiche di sviluppo sostenibile nel nostro Paese, resta il dubbio di trovarsi di fronte a un déjà-vu. Per essere più espliciti: non vorremmo che questo ennesimo organismo collegiale a latere del governo si rivelasse l’ennesima fabbrica di idee meravigliose destinate, in buona parte, a rimanere inapplicate o a impigliarsi nei grovigli della burocrazia. Tanto per fare un esempio, ci sembra alquanto complicato il meccanismo che dovrà regolare il rapporto tra il CITE e il neonato MITE istituito ai sensi del precedente art. 2. Il rischio di un accavallamento di competenze sembra elevato. Ci auguriamo naturalmente che non sia così.

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In ogni caso, alla base della piramide operativa del sistema CITE-Comitato tecnico ci saranno “risorse umane e strumentali disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Cosa significa questo passaggio è piuttosto chiaro: non un euro di spesa pubblica in più è previsto per selezionare, formare e men che meno incentivare la struttura di supporto operativo che (presumibilmente, con un livello tutt’altro che modesto di competenze e professionalità) dovrà garantire il funzionamento del nuovo pensatoio ecologico che, a sua volta, dovrà indirizzare l’azione delle pubbliche amministrazioni verso un futuro green. A quanto pare, neanche la nuova filosofia della sostenibilità riesce a smuovere la logica, tutta italiana, secondo cui le grandi riforme (che ora si chiamano ‘transizioni’) si basano sulla previsione di nuovi e maggiori impegni a carico del personale della p.a., ma rigorosamente a costo zero.  

L’art. 8 istituisce – sempre presso la Presidenza del Consiglio – il Comitato Interministeriale per la Transizione Digitale (CITD), che ha il compito di “coordinare e monitorare l’attuazione delle iniziative di innovazione tecnologica e transizione digitale delle pubbliche amministrazioni”. In particolare, questo lavoro di coordinamento e monitoraggio dovrà riguardare soprattutto i seguenti ambiti: strategia nazionale italiana per la banda ultra-larga, reti di comunicazione elettronica satellitari, terrestri mobili e fisse; fascicolo sanitario elettronico e   piattaforma dati sanitari; sviluppo e alla diffusione delle tecnologie emergenti dell’intelligenza artificiale, dell’internet delle cose (IoT) e della blockchain.

Tralasciamo in questa sede tutte le considerazioni sulla tenuta e sull’utilizzo in sicurezza di immense banche di dati ultra-sensibili che riguardano la vita privata dei cittadini, come quelli sulla salute, sulle relazioni interpersonali, sulle abitudini commerciali, ecc. Per ora limitiamoci a prendere atto che – a quanto sembra di comprendere – la diffusione delle nuove tecnologie nelle pubbliche amministrazioni passerà anche attraverso l’Internet delle cose e l’intelligenza artificiale. E qui riteniamo che il sindacato dei lavoratori dovrà essere messo nelle condizioni istituzionali di poter dare il proprio contributo se e nella misura in cui queste innovazioni andranno a impattare (e non potranno non farlo) sull’organizzazione del lavoro negli uffici della pubblica amministrazione.

Ma ciò che non possiamo fare a meno di evidenziare è che il processo di innovazione tecnologica e di trasformazione digitale del Paese, ufficialmente avviato da almeno 20 anni, continua a fabbricare sempre nuove strutture burocratiche, nuovi comitati di esperti, nuove Agende e nuovi Piani che si rincorrono da una legislatura all’altra, anzi, da un cambio di governo all’altro, come se il primo obiettivo della ‘transizione digitale’ fosse quello di strutturare e ri-strutturare continuamente la governance di programmazione tecnico-politica che deve presidiarla.

Nel dossier parlamentare di accompagnamento al disegno di conversione in legge del decreto 22 c’è un passaggio emblematico che spiega il senso dell’impasse storica in cui il nostro Paese continua a dibattersi in materia di innovazione digitale. Vale la pena di leggerlo: “La competitività digitale si irradia in Italia in molteplici piani di azione pubblica, dal Piano triennale per l’informatica nella Pubblica amministrazione 2019-2021 ai Piani nazionali “Impresa 4.0” indi “Transizione4.0” (con insieme un Fondo nazionale innovazione), dal Piano nazionale Scuola digitale al Piano banda ultralarga, fino al Piano “2025.Strategie per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione del Paese. Le prime azioni per l’Italia del futuro”, per menzionare solo alcuni”. Solo alcuni, appunto.

Il neonato CITD plana dunque su una foresta di azioni e interventi già programmati e di strutture pubbliche deputati ad attuarli, disperse in vari enti a livello sia nazionale che territoriale e con congruo supporto di esperti e consulenti privati. Esso svolgerà la sua attività di coordinamento delle iniziative delle pubbliche amministrazioni senza intaccare le competenze e le funzioni in materia di innovazione già attribuite da precedenti norme alla stessa Presidenza del Consiglio, alcune anche assai recenti (ad esempio il decreto 135/2018, governo Conte I), con successiva delega di funzioni avvenuta nel 2019 (governo Conte II) al Ministro per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione che con il governo Draghi (D.P.C.M. 13 febbraio 2021) ora è diventato Ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale.

Sinceramente, non ci sembra di intravedere una reale ed efficace azione di snellimento e semplificazione delle politiche nazionali in materia di innovazione tecnologica. E chissà se anche questo contribuisce ad alimentare i cattivi risultati che emergono dalla “Relazione annuale sull’indice di digitalizzazione dell’economia e della società” 2020 della Commissione europea (DESI, acronimo dall’inglese per Digital Economy and Society Index) che collocano l’Italia al venticinquesimo posto su 28 Paesi, seguita solo da Romania, Grecia e Bulgaria.

Probabilmente il nostro Paese rivestirebbe una posizione assai migliore in classifica se esistesse anche un indice europeo riservato alle Strutture tecniche di supporto e ai Comitati di esperti in riforme e transizioni di qualunque genere e in qualunque settore. Sotto questo aspetto, siamo dei veri maestri a livello internazionale. A rinforzare questa consolidata tradizione nostrana penserà il nuovo organismo che, in base al comma 9 dell’art. 8, verrà creato a supporto del CITD presso la Presidenza del Consiglio. Si tratta di un “contingente composto da esperti in possesso di specifica ed elevata competenza nello studio, supporto, sviluppo e gestione di processi di trasformazione tecnologica e digitale” di cui potranno far parte consulenti esterni alla p.a. nominati ad hoc, per la modica spesa complessiva a carico della collettività di 2.200.000 euro per l’anno 2021 e 3.200.000 annui a decorrere dal 2022 senza limite di durata. Toccherà poi a un apposito decreto del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale individuare il contingente dei novelli Avengers dell’innovazione digitale, definirne la composizione ed i relativi compensi, “nel limite massimo individuale annuo di 90.000 euro al lordo degli oneri a carico dell’amministrazione”. Contestualmente, viene incrementato di 15 unità di personale, per una spesa annua pari a 600.000 euro a decorrere dal 2021, il contingente di esperti già istituito (art. 42, comma 1, decreto-legge 30 dicembre 2019, n. 162, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2020, n. 8) presso la Presidenza del Consiglio per l’attuazione dell’Agenda Digitale italiana.

Indovinate un po’ quali sono gli obiettivi? Eccoli trascritti direttamente dalla citata norma di appena 1 anno e mezzo fa: “svolgimento delle funzioni nella materia dell’innovazione tecnologica, anche al fine di favorire la diffusione di  processi  di innovazione tecnologica  delle  imprese  e  start-up,  nonché  nelle materie dell’attuazione dell’agenda digitale e  della  trasformazione digitale del Paese con particolare  riferimento  alle  infrastrutture digitali materiali e immateriali, alle tecnologie e servizi di  rete, allo sviluppo  ed  alla  diffusione  dell’uso  delle  tecnologie  tra cittadini,  imprese  e  pubbliche  amministrazioni,  alla  diffusione dell’educazione  e  della  cultura  digitale  anche   attraverso   il necessario   raccordo   e   coordinamento   con   le   organizzazioni internazionali ed europee operanti nel  settore”.

Non è per mania di protagonismo se il sindacato lamenta spesso la mancanza di coinvolgimento nelle più importanti decisioni nazionali che riguardano le grandi politiche pubbliche in materia di sviluppo, utilizzo di nuove tecnologie, coesione sociale e superamento delle disuguaglianze. Politiche strettamente interconnesse che passano attraverso l’azione della pubblica amministrazione, alla quale spetta il compito di trasformarle in servizi di cittadinanza. Fino a che le decisioni organizzative che hanno impatto sugli assetti strutturali della pubblica amministrazione resteranno prerogativa di cerchie ristrette e inaccessibili di tecnocrati addetti alla “reingegnerizzazione” dei processi o alla elaborazione di “scenari”, difficilmente riusciremo a superare il problema storico della nostra macchina amministrativa rappresentato dalla sovrapposizione di competenze fra organismi chiamati ad agire sulle stesse materie: a volte in reciproca contrapposizione, spesso in competizione per la conquista dei migliori spazi di visibilità istituzionale.

Non basta cambiare nome alle cose per renderle funzionali e la regola vale anche per i Ministeri. Qualunque “transizione” assume un significato politico e sociale solo se contribuisce a migliorare realmente il livello dei servizi pubblici e la qualità della vita delle persone. Altrimenti rischia di restare solo un’operazione di facciata utile ad erogare finanziamenti pubblici e garantire consulenze ben retribuite a esperti di vecchio e nuovo corso..

Sandro Colombi, Segretario generale Uilpa

Roma, 24 maggio 2021

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