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UIL. Autonomia differenziata: un progetto per il Paese?

Relazione introduttiva di Ivana Veronese – Segretaria Confederale UIL

 

Care/i compagne/i e amiche/ci della UIL, che certamente avete fatto ogni sforzo e anche qualche fatica per essere presente con noi qui oggi, per arrivare puntuali, per parcheggiare la macchina…. Grazie davvero di esserci anche se….. la prima considerazione, no, anzi due è rivolta ai nostri ospiti.

Innanzitutto, per ringraziarli e dare loro atto della disponibilità al confronto, della prontezza che certamente avranno nell’esprimere la posizione loro e/o del loro partito, ma anche della predisposizione ad ascoltare quello che, ad esempio su un tema così complesso e strategico al tempo stesso, ha da dire un sindacato.

Altri, a cui pure ci siamo rivolti, che hanno ruoli nei partiti, nelle commissioni parlamentari o addirittura nel governo, ci hanno risposto con un no grazie.

Magari perché questo non è un talk show dove litigare – perché il nostro confronto sarà certamente ordinato e rispettoso – e nemmeno c’è una platea televisiva che ascolta e che non ha alcuna possibilità di replicare o interagire.

D’altra parte, io ricordo bene, la mia maestra delle scuole elementari, che faceva notare a noialtri, un po’ rumorosi, che ogni persona ha una bocca ma due orecchie. E, per l’appunto, chi vuol capire ha capito bene.

Ma la cosa più importante che vorrei dire ai nostri ospiti è questa.

Qualche mese fa la UIL ha celebrato il proprio congresso ed ha scelto di avere come slogan caratterizzante, il sindacato delle persone.

La faccio semplice: certo c’è il lavoro al centro della nostra attenzione, il lavoro per chi ce l’ha, il lavoro svolto per decenni dai nostri pensionati, il lavoro per coloro che lo cercano e magari lo pretendono remunerato il giusto, sicuro e stabile, sicuro anche dal punto di vista che non fa perdere la salute o addirittura la vita, insomma il lavoro portatore di diritti.

La persona al centro, questo è il nostro impegno, per ascoltare le istanze, per farci interpreti dei bisogni, per costruire politiche sindacali che pensino, per l’appunto, non soltanto al lavoro e a tutti i contenuti connessi, ma anche a tutte le problematiche e gli ambiti che determinano la qualità della vita delle persone, la loro stessa dignità, il fondamento stesso del vivere civile e della coesione sociale.

Noi, come UIL, pensiamo che ci si debba occupare anche dei diritti di cittadinanza e guardare oltre, ai tanti individui che molto spesso non hanno nemmeno questa forma di partecipazione.

Ed ecco perché oggi ci occupiamo di autonomia differenziata, non con la supponenza di un sindacato che vuol mettere becco su tutto, ma con la consapevolezza di un’organizzazione che sa che le riforme costituzionali, il federalismo, il presidenzialismo, la distribuzione dei poteri fra stato centrale ed autonomie locali, non sono elementi indifferenti rispetto alla qualità dei servizi, all’efficienza della macchina pubblica, da cui deriva in buona misura, anche la qualità di vita, per l’appunto, delle persone.

Ed entro subito nel tema anche per chiarire perché di autonomia differenziata ce ne occupiamo proprio oggi.

I riflettori si sono accesi sul processo delle riforme istituzionali e costituzionali a seguito dell’approvazione, in Consiglio dei Ministri lo scorso 2 febbraio, del disegno di Legge inerente alle disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a Statuto ordinario e della definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni prevista in Legge di Bilancio per il 2023.

Sullo sfondo, la proposta di riforma costituzionale con l’introduzione del cosiddetto “presidenzialismo” o “premierato” che, stando alle parole della Presidente del Consiglio, dovrà andare di pari passo.

Ma prima di addentrarci sul tema specifico dell’autonomia differenziata, oggetto dell’iniziativa odierna, riteniamo utile aprire una breve digressione su come siamo arrivati a questa fase, ripercorrendo, sinteticamente, le tappe del cambiamento del nostro Paese negli ultimi 40 anni.

Non è certo la prima volta che la politica, il Parlamento, cercano di mettere mano alla Costituzione.

In passato, il Parlamento ha tentato tre volte di avviare processi di riforma attraverso organi composti da Deputati e Senatori, le cosiddette bicamerali per le riforme.

Non sempre con successo come vedremo.

Il gran deficit accumulato dalla finanza pubblica, l’inefficienza e l’inefficacia della macchina amministrativa, hanno fatto sì che la politica si ponesse il tema delle riforme costituzionali e istituzionali già a partire dai primi anni 80.

Da allora, la Costituzione è finita più volte al centro del dibattito politico e in più occasioni, la possibilità di una riforma strutturale, è stata proposta dalle forze politiche sia del centro destra che del centro sinistra.

I primi tentativi di revisione costituzionale risalgono agli anni 80 e 90.

La prima bicamerale fu istituita nel 1983 e presieduta dall’On. Aldo Bozzi.

La Commissione non formalizzò una vera e propria proposta di revisione costituzionale, ma formulò alcune proposte, tra cui un taglio del numero dei Parlamentari.

Il secondo tentativo, risale al 1992 con la bicamerale, presieduta prima dall’On. Ciriaco De Mita e poi dall’On. Nilde Iotti, ma la fine anticipata della legislatura bloccò il progetto.

L’ultima bicamerale fu costituita nel 1997 ed era presieduta dall’On. Massimo D’Alema.

La Commissione riuscì a portare un testo di riforma in aula, frutto del cosiddetto “patto della crostata”, evento importante, anche se avvenuto fuori dal contesto istituzionale.

Infatti, il vertice si tenne a casa di Gianni Letta, in cui i partiti di allora (PDS, FI, AN e PPI) raggiunsero l’intesa per una Repubblica semipresidenziale, una legge elettorale a doppio turno di coalizione e la riforma del Titolo V.

L’aula della Camera dei Deputati discusse le proposte per sei mesi. Furono presentati più di 42 mila emendamenti, finché i lavori vennero sospesi per forti divergenze fra le diverse parti politiche coinvolte.

Dopo questi tre tentativi di lavorare su una riforma strutturale della Costituzione in maniera bipartisan e condivisa, il Parlamento ha abbandonato la via delle bicamerali e le riforme, da allora, sono state fatte tutte a colpi di maggioranza.

La prima, la più importante fu nel 2001, conosciuta sotto il nome di riforma del “Titolo V” o se volete riforma in senso “federale della Repubblica”.

Riforma questa tutt’oggi in vigore, avendo superato il referendum costituzionale che vide prevalere i sì con il 64%, a fronte, però, di un’affluenza alle urne solo del 34% degli aventi diritto.

Si tratta di una riforma fatta, diremmo in fretta e furia, varata dal governo di centro- sinistra con lo scopo di togliere appeal al richiamo “localistico” caro ad alcuni partiti. Una riforma che, si può anche condividere nel suo impianto generale, ma che certo si fa fatica a definire esaustiva.

Come UIL, avanzammo delle critiche su alcuni punti, quali la mancata istituzione di una “Camera delle Autonomie”, oggi semplificata nel dibattito con il “Senato

Federale” e l’articolazione di alcune competenze tra Stato e Regioni, in particolare per quanto riguarda la legislazione concorrente.

Toccò, poi, al Governo di centrodestra approntare nel 2005, con il “patto di Lorenzago”, nella baita di montagna dell’allora Ministro Tremonti, una riforma Costituzionale ben più ampia, ad iniziare dalla forma di Governo fino ad un decentramento esasperato con la cosiddetta “Devolution”.

Allora come oggi, il “padre” della riforma era Calderoli all’epoca Ministro alle riforme istituzionali.

Venendo alla devolution, il tentativo naufragò con il referendum confermativo dove, a fronte di un’affluenza che raggiunse il 52% degli aventi diritto, la legge fu respinta dagli elettori che, con il 61% risposero in maniera negativa al quesito.

È stata poi la volta della riforma costituzionale a firma Renzi e Boschi per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei Parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e delle Province e la revisione del Titolo V.

Anche questa volta il tentativo è fallito sotto i colpi del referendum confermativo, che vide un’affluenza alle urne pari a circa il 65% degli elettori residenti in Italia e all’estero e una netta preponderanza dei pareri contrari alla riforma, che superarono il 59% delle preferenze espresse.

In porto, invece, con il referendum confermativo, nel 2020, la riduzione del numero dei Parlamentari con un’affluenza alle urne del 51% e un consenso pari al 70% dei voti espressi.

Non che nel frattempo non si sia agito con una moltitudine di provvedimenti a Costituzione invariata, a partire dalla fine degli anni 90 sul decentramento amministrativo, con le “Leggi Bassanini” e sull’autonomia impositiva di Regioni ed Enti Locali, con l’introduzione delle Addizionali IRPEF, ICI, IPT.

Erano questi i primi barlumi di un processo amministrativo e finanziario del sistema delle Autonomie Locali.

Ma con l’autonomia impositiva si poneva la necessità, soprattutto per le Regioni, di introdurre dei meccanismi di perequazione tra le Regioni “ad alta capacità contributiva” con quelle con “minore capacità contributiva”.

È in questo contesto che si colloca il Dlgs 56 del 2000, uno strumento che, nato con l’intento di ridurre le disuguaglianze tra territori, in realtà, come spesso accade nel nostro Paese, tra una mediazione ed un’altra, ha prodotto una perequazione assai modesta nelle percentuali. Meccanismo questo, basato sulla perequazione del gettito dell’IVA, ancora oggi in vigore.

Scusate questa lunga digressione, ma riteniamo che sia importante capire da dove veniamo per poi sapere dove andare.

E veniamo al tema del dibattito di oggi e cerchiamo di rendere chiaro cosa noi come UIL pensiamo, con un approccio laico-riformista, come è nel nostro DNA.

Noi riteniamo che questo Paese, per essere ammodernato e per competere sul piano dello sviluppo e ridurre le disuguaglianze, abbia bisogno di riforme molto ampie, condivise, partecipate, realizzate dalle forze politiche ma avvertite come opportune anche dalle forze sociali e dall’intera cittadinanza.

L’attuale Governo ha scelto invece una strada diversa con un intervento riformatore, sostanzialmente vincolato su due obiettivi: da una parte l’autonomia differenziata, dall’altra la strada del presidenzialismo o semi presidenzialismo.

A nostro avviso, si tratta di “riforme bandiera” che non arrivano al nocciolo della questione; parafrasando lo slogan scelto per oggi: si vuole veramente cambiare il nostro “sistema Paese”?

Se sì, allora si proceda con un disegno strategico per il rinnovamento del sistema istituzionale del Paese, organico, coerente, ma soprattutto condiviso tra le forze politiche e con un ampio confronto che coinvolga le parti sociali.

Il nostro non è l’ennesimo appello alle buone intenzioni e alle più corrette prassi, ma nasce dalla constatazione che le riforme di sistema non possono essere sottoposte al continuo balletto di cambiamenti, a seconda del clima politico o delle maggioranze parlamentari.

Le riforme sulle regole, sui compiti e sulle funzioni delle istituzioni, sia centrali che periferiche della Repubblica, “o sono del sistema o non lo sono”.

Il risultato ad oggi, è quello di un Paese che è in una transizione perenne che dura, come abbiamo visto poc’anzi, da almeno 40 anni.

Mentre il buon senso, un’ampia condivisione nei contenuti e nella partecipazione alle riforme, devono essere la “conditio sine qua non” per una democratica revisione della Costituzione e per garantire la coesione civile, sociale, politica e nazionale del Paese. La nostra sensazione, e lo diciamo con spirito pragmatico, è che si navighi a vista oppure che si nasconda quello che è il vero intento della riforma attraverso il concetto: “il territorio è mio, mi tengo io tutte le tasse, faccio io tutte le spese, poco mi importa della centralità dello Stato e ancor meno della coesione nazionale”.

Oggi, secondo noi, lo stesso riformato Titolo V, a cui, tra l’altro, non si è mai data piena attuazione, ha bisogno di un ripensamento vero, soprattutto sugli articoli 117 e 119. Lo abbiamo sempre sostenuto che alcune materie, oggi di competenza concorrente sia dello Stato che delle Regioni, devono essere riportate in seno alla competenza esclusiva dello Stato.

Per noi, infatti, deve restare allo Stato tutto ciò che travalica la dimensione territoriale di azione.

La stessa attuazione del federalismo, figlio diretto della riforma del Titolo V, sia amministrativo che fiscale non è stata realizzata.

Difatti, sul tema della perequazione e della fissazione dei LEP e LEA, la legge 42 del 2009 in materia di federalismo fiscale è ancora un’incompiuta.

Con questa Legge, attraverso i due principali Decreti attuativi sul fisco municipale e quello regionale e provinciale si sono manovrati soltanto i tributi di quegli Enti con aumenti di aliquote.

I dati, da questo punto di vista, sono emblematici: tra IRPEF Regionale e Comunale si è passati da un esborso medio pro capite di 389 euro nel 2009 ai 620 euro medi nel 2021, con un aumento del 59,4%.

La spesa di Regioni ed Enti Locali è passata dai 207 miliardi di euro del 2002 agli oltre 275 miliardi del 2021, con un aumento del 27,5%.

È questo il nocciolo della questione da tenere in debito conto e non la distribuzione di ulteriori poteri e funzioni alle Regioni.

Anche l’autonomia differenziata, d’altra parte, è “una questione di titolo V”.

Tutto nasce dalla riforma dell’articolo 116 della Costituzione, ma l’intento dei riformatori era allora di elencare un numero limitato di materie che le Regioni avrebbero potuto richiedere (ma si pensava ad una o due).

A seguito dei referendum regionali in Lombardia e Veneto, nel 2017, sull’autonomia differenziata si è posto il tema del cosiddetto “federalismo a geometria variabile”.

Noi siamo, come UIL, per respingere le differenziazioni perché il rischio è quello di creare nuove diseguaglianze in questo o in quel territorio, nuovi squilibri: Nord vs Sud, aree urbane vs aree interne.

Tra l’altro, abbiamo sempre detto in tutte le occasioni che per noi è fondamentale creare un’idea nuova per il Paese: più unito, più inclusivo, più giusto, più solidale e più coeso.

Noi siamo un Paese che sin dall’unità d’Italia aveva una significativa distanza non solo geografica ma anche culturale fra i diversi ambiti geografici.

E nel corso dei decenni ha visto consolidarsi forti disuguaglianze sociali e territoriali. L’autonomia differenziata, così come disegnata dal dispositivo normativo approvato dal Governo, non solo non pone riparo alle evidenti disfunzioni delle attuali Regioni, ma al contrario rischia di accentuarne le inefficienze, fino ad arrivare vicino alla “disgregazione” del nostro già fragile Stato nazionale.

L’autonomia differenziata rischia di mettere in discussione definitivamente il carattere pubblico e nazionale, ad esempio, dell’istruzione e di conseguenza mina, alla radice, le basi del diritto allo studio.

Si rischia di vanificare la portata del contratto collettivo nazionale di lavoro e si rischia

di dire addio all’unitarietà dell’insegnamento.

E bene stanno facendo, unitariamente, le categorie sindacali della scuola a raccogliere le firme per la proposta di Legge costituzionale di iniziativa popolare per contrastare l’autonomia differenziata nel sistema di istruzione.

E, a rincarare la dose, nel dibattito politico è stata avanzala la proposta, a nostro avviso sciagurata, di reintrodurre le gabbie salariali di antica memoria a proposito degli stipendi degli insegnanti.

A nostro parere, invece, è necessario parlare di stipendi più decorosi e nella media europea ed agire per un’ampia presa di consapevolezza dell’importanza dell’istruzione e della cultura.

Tra l’altro noi crediamo che si debba ridurre l’attuale gap salariale tra Nord e Sud del Paese.

Già oggi una lavoratrice o lavoratore nel Mezzogiorno dichiara un reddito inferiore del 19% della media nazionale e del 27% se lo si paragona ad una/o collega che lavora nel Nord.

Ma tornando al testo del disegno di Legge ci domandiamo: è sensato decentrare anche le norme generali sull’istruzione alle Regioni?

Per non parlare della salute e della sanità.

Si può devolvere completamente alle Regioni la tutela della salute, alle stesse Regioni che hanno mostrato e mostrano una certa incapacità a gestire il sistema sanitario?

È ancora attuale chiamare nazionale il servizio sanitario visto che già abbiamo 21 sistemi regionali, o non sarebbe più reale chiamarlo servizio sanitario regionale?

Ed ancora, possiamo permetterci lo spezzatino delle reti nazionali di energia?

È giusto che una Regione richieda la competenza regionale ad approvare le infrastrutture strategiche ricadenti sul proprio territorio e la governance di porti ed aeroporti?

Si può dare alle Regioni anche la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali?

È giusto potenziare i meccanismi di partecipazione regionale alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi e delle iniziative dell’Unione europea, quando a Bruxelles dovremmo parlare con un unico linguaggio?

Pensiamo veramente che sia sensato dare in via esclusiva la potestà legislativa sulle politiche attive e sulla sicurezza sul lavoro?

E questi sono solo alcuni esempi delle 23 materie che possono essere oggetto del “federalismo a geometria variabile”.

Tutte tematiche di assoluta rilevanza per la qualità della vita delle persone ma anche perché il nostro Paese possa avviarsi, in modo consapevole, armonico e progettuale verso il futuro.

Si tratta di materie su cui a più riprese il sindacato confederale, e noi come UIL, ha presentato proposte, idee e piattaforme per le quali ha richiesto un confronto con le altre parti sociali e soprattutto con tutte le forze politiche. Confronto che, purtroppo, negli ultimi anni è stato realizzato o qualche volta soltanto promesso, con scarsi risultati e ancor meno attenzione. Non per nulla su ognuno di questi temi (dall’energia alla sicurezza sul lavoro, dai centri per l’impiego alle infrastrutture, dalla salute all’istruzione e formazione) qualche volta si ha l’impressione che si brancoli fra idee spezzettate e grandi proclami, fra volontà riformatrici e tendenza alla conservazione. E’ assolutamente necessario per la UIL avere un progetto forte per il Paese, anche perché è qui che vivono le persone, i cui diritti civili e sociali, la cui dignità va salvaguardata e rafforzata.

A tal proposito ci chiediamo anche: è sensato che la determinazione dei LEP concernenti i diritti civili e sociali, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e i relativi costi standard, siano adottati con un Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri esautorando di fatto il Parlamento ed il dibattito fra le forze politiche e sociali?

Tra l’altro, il disegno di Legge indica che il passaggio dalla spesa storica ai costi standard non deve implicare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Quindi come finanzieremo i LEP e come garantiremo i diritti di cittadinanza a tutti e in modo uniforme su tutto il territorio nazionale se non ci sono risorse aggiuntive?

Come finanzieremo il fabbisogno di un asilo nido in un Comune che non ha mai messo in piedi questo servizio?

Un’ulteriore criticità deriva dal fatto che il disegno di Legge prevede che le modalità di finanziamento delle funzioni attribuite, avvenga solo attraverso la compartecipazione al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio.

Così come è stato scritto, lo Stato quindi dovrebbe occuparsi di finanziare, non solo le competenze trasferite fino al soddisfacimento dei LEP, ma l’intero servizio offerto dalla Regione, togliendo in questo modo risorse importanti ad altre Regioni o per alimentare il sistema di perequazione.

Il tema dei temi, a nostro avviso, è rappresentato, proprio, dal sistema della perequazione.

Come detto in precedenza, a tutt’oggi il sistema di perequazione è basato sui criteri del Dlgs 56 del 2000, mentre i decreti attuativi della legge 42 del 2009 in materia di federalismo fiscale prevedevano un nuovo meccanismo per finanziare le funzioni essenziali delle Regioni, basato su un mix di tributi propri e compartecipazioni al gettito di tributi erariali facendo riferimento al gettito IRPEF.

Il sistema di perequazione, a parere della UIL, è necessario e vitale per ridurre i divari tra i diversi territori, così come previsto dall’articolo 119 della Costituzione, non solo sulla base di indicatori finanziari (differenti capacità fiscali), ma anche sulla base di analisi sulle sperequazioni infrastrutturali materiali ed immateriali che riguardano soprattutto il Mezzogiorno.

In tale direzione è necessario potenziare il fondo di perequazione infrastrutturale istituito con la Legge di Bilancio 2021, con una dotazione complessiva di 4,6 miliardi di euro per il periodo 2021/2033 evidentemente insufficiente per raggiugere i risultati di riduzione dei divari.

Il disegno di Legge sull’autonomia differenziata, non istituisce un fondo perequativo a supporto dei territori con “minore capacità fiscale per abitante”, come invece è stabilito dall’articolo 119 comma terzo della nostra Costituzione.

Bensì si limita a stabilire l’unificazione delle diverse fonti aggiuntive o straordinarie di finanziamento statale in conto capitale, destinate alla promozione dello sviluppo economico, della coesione e della solidarietà sociale alla rimozione degli squilibri economici e sociali (articolo 119 comma 5).

In pratica, si interviene principalmente sul Fondo Sviluppo e Coesione (FSC), che ricordiamo è l’unico strumento finanziario attraverso cui vengono attuate politiche per lo sviluppo, la coesione economica, sociale e territoriale con l’intento di rimuovere gli squilibri territoriali con una ripartizione dell’80% al Mezzogiorno.

Tanto per ricordarci: fino al 2011, anno di istituzione del Fondo Sviluppo e Coesione (creato con la Legge 42 del 2009) era in vigore il Fondo per le Aree Sottoutilizzate (FAS), la cui ripartizione era dell’85% al Mezzogiorno.

E su questo punto mettiamo subito, come UIL, le mani avanti: a nessuno venga la tentazione di modificare l’attuale ripartizione territoriale del Fondo Sviluppo e Coesione, o di utilizzarlo per finanziare i LEP.

Così come a nessuno venga in mente di utilizzare le risorse europee per la coesione, in pratica i fondi strutturali europei, per alimentare il sistema di perequazione infrastrutturale materiale e immateriale.

Per dare più concretezza a questa giornata, strutturata attorno ad un ascolto delle valutazioni degli esperti ed agli orientamenti delle forze politiche, ma anche di esplicitazione ulteriore delle nostre idee e delle nostre proposte, diciamo chiaramente che per la UIL occorre avviare un processo riformatore della seconda parte della Costituzione, che abbia da un lato la capacità di rafforzare il livello centrale di governo e dall’altra di avviare una rimodulazione generale degli Enti Territoriali.

Il Paese ha bisogno di riprendere il cammino delle riforme e completare il percorso del decentramento amministrativo e fiscale, che si è interrotto in questi ultimi anni e mettere mano anche al pasticcio fatto con le Province.

In questa ottica sarà importante chiarire, una volta per tutte, compiti e responsabilità, in modo tale da assicurare al sistema degli Enti Territoriali il finanziamento integrale, attraverso i costi standard delle funzioni pubbliche attribuite.

Occorre innanzitutto definire con precisione e chiarezza “chi fa, cosa e come”, tra Stato ed Enti Territoriali, assegnando, poi, senza ambiguità e sovrapposizioni i compiti ai diversi livelli di governo e di gestione.

La riforma del Codice delle Autonomie prevista dal PNRR è, a parere della UIL, l’occasione per ridisegnare gli organi e le funzioni degli Enti Locali, con l’intento di semplificarne e razionalizzarne l’ordinamento, anche per renderli coerenti con la riforma dei servizi pubblici locali.

In linea di principio, noi non siamo contrari all’autonomia differenziata come prevista dall’articolo 116 della Costituzione, se serve per razionalizzare alcune competenze.

Ma consideriamo che, prima, occorra applicare compiutamente l’articolo 119 sull’autonomia finanziaria di entrata e di spesa ed il sistema di perequazione, senza il quale sarebbe impossibile garantire i diritti civili e sociali uniformi su tutto il territorio nazionale.

Crediamo poi però che, prima di parlare di autonomia differenziata, dobbiamo fare ogni sforzo per porre sullo stesso piano tutti i territori.

Non possiamo iniziare una partita con una squadra che già all’inizio è sotto di alcuni goal.

Così come non possiamo permetterci di garantire i diritti di cittadinanza a seconda dell’area geografica di nascita o residenza.

Ultimo, ma non meno importante per la UIL: ci sono diritti fondamentali delle persone che non possono e non devono essere oggetto di autonomia differenziata: ci riferiamo al diritto all’istruzione, al diritto alla salute e sicurezza, al diritto al lavoro. Sono diritti centrali al pari di quelli civili del voto, della libertà, della partecipazione, del rispetto della dignità.

E questo non è un modo per dilatare i tempi ma per evidenziare, una volta di più da parte della nostra organizzazione che è orgogliosa di definirsi il sindacato delle persone, l’importanza della coesione sociale in ambito nazionale, che è un principio cardine per la stessa qualità di vita di ogni cittadino e cittadina, per la democrazia e per il funzionamento del Paese.

Avviandomi alle conclusioni: con questo incontro ci siamo presi il compito di approfondire un tema complesso quale quello dell’autonomia differenziata ma l’abbiamo voluto fare con questo angolo di visuale: con l’autonomia differenziata, quali effetti e quali benefici o svantaggi vi saranno per i cittadini, per le lavoratrici e i lavoratori, per le pensionate e i pensionati, per i sistemi economici?

E abbiamo voluto affrontare questo tema nella consapevolezza che c’è persino un po’ di azzardo: in un momento come questo caratterizzato da una guerra dentro l’Europa, con flussi migratori che derivano dai disastri che contraddistinguono tante parti del mondo, con un’inflazione galoppante che agisce da tassa occulta su salari e pensioni, con una economia che stenta a ripartire in molti contesti produttivi, con un’Europa alla ricerca di un suo ruolo nel contesto mondiale, è veramente prioritario inserire nell’agenda e nel dibattito politico e sociale un tema così divisivo quale quello dell’autonomia differenziata?

Non sarebbe, invece, prioritario agire sulla riduzione del cuneo fiscale per i dipendenti e abbassare le tasse sulle pensioni?

Non sarebbe da Paese civile concentrarsi concretamente su azioni per arrivare a zero morti sul lavoro?

Non sarebbe ben più utile lavorare con impegno per realizzare celermente i progetti e le riforme del PNRR per il quale l’Europa ha messo a disposizione dell’Italia risorse economiche e supporti proprio, fra gli altri obiettivi, per ridurre i divari territoriali, di genere e generazionali?

Ciò che noi auspichiamo è un “progetto per il Paese” imperniato sui principi dell’uguaglianza, della solidarietà, della partecipazione e sull’esigibilità dei diritti civili e sociali in ogni contesto e per ogni tempo. Infatti, mentre pensiamo alle lavoratrici ed ai lavoratori, ai nostri anziani, a tutte le persone, alziamo gli occhi all’orizzonte e vogliamo impegnarci come sindacato, come UIL, anche per i bambini e le bambine che si aprono oggi alla vita. Sono loro il vero futuro e abbiamo l’ambizione di agire nel nostro quotidiano, ed anche in giornate di confronto e di dibattito come questa, per lasciare loro un Paese più giusto ed equo, impegnato nel superamento di ogni disuguaglianza, un Paese migliore.

E scusate se è poco.

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