Come sapete, è da un po’ di tempo che faccio il sindacalista. Però devo ammettere che rare volte mi era capitato di imbattermi in un’iniziativa così indovinata nei contenuti e nella tempistica come quella di oggi. Un’iniziativa targata UIL e nella quale, forse per la prima volta in assoluto, o comunque per la prima volta da tanti anni, le categorie del settore pubblico della UIL mettono in comune le proprie capacità di riflessione, analisi e proposta contro la penalizzazione dei lavoratori del settore pubblico. In questo senso il titolo del convegno è perfetto. Però vorrei rilevare che la penalizzazione dei lavoratori pubblici non è un insieme casuale di contingenze, ma una vera e propria strategia politica. Lo stato di degrado in cui oggi versa il lavoro pubblico in Italia e l’umiliazione del dipendente dello Stato da parte di una permanente campagna stampa sono il frutto di precise scelte politiche, economiche e mediatiche. Scelte portate avanti con determinazione in nome dell’ideologia neoliberista e con l’obiettivo creare un rapporto di sudditanza del pubblico nei confronti del privato.
Allora, il tema è certamente quello di mettere fine alla penalizzazione dei lavoratori pubblici, ma occorre sciogliere dei nodi una volta per sempre. Per esempio, occorre seppellire la vulgata secondo al quale nel settore pubblico non si è in grado di lavorare in modo efficiente e produttivo. Ma non tanto per l’incapacità o la scarsa professionalità dei dipendenti, quanto per la presenza di una serie di fattori di contesto che impedirebbero al lavoro pubblico di attuare quei meccanismi di autoregolazione e di bilanciamento fra retribuzione e produttività che sono tipici delle dinamiche di mercato. Ne consegue che la regolazione delle condizioni del lavoro pubblico non può seguire gli stessi principi giuridico-normativi del lavoro privato.
Da quando sono stato eletto alla guida della mia categoria ho inviato decine di comunicati stampa per denunciare le conseguenze nefaste di questa vulgata. Come lavoratori non ne possiamo più di una Pubblica Amministrazione fatta di norme e regole fabbricate negli uffici legislativi dei partiti politici e ratificate a scatola chiusa dal Parlamento. Questa prassi genera un lavoro pubblico soffocato da una foresta sempre più fitta di leggi speciali che per gli altri lavoratori non esistono. Ciò significa che il principio fondamentale della democrazia economica, quello secondo cui la disciplina delle condizioni di lavoro è regolata da norme di natura pattizia, nel lavoro pubblico non solo viene messo in discussione, ma addirittura viene stravolto con l’affermazione della prevalenza imperativa della legge rispetto al contratto. In questo modo, lo squilibrio di forze nel rapporto dialettico fra datore di lavoro e pubblici dipendenti è fissato per via legislativa e la partecipazione dei lavoratori ai processi di organizzazione del lavoro è relegata ai margini del confronto negoziale. O al massimo, nei casi migliori, viene concessa come manifestazione di liberalità della controparte amministrativa.
Ecco cosa intendo dire quando affermo che il problema della penalizzazione dei dipendenti pubblici poggia su un presupposto ideologico che rimanda a una precisa concezione del rapporto fra Stato e mercato. In questo Paese si è scelto deliberatamente di affossare il lavoro pubblico per facilitare il trasferimento di fette sempre più consistenti di servizi a soggetti privati. Con risultati disastrosi che sono sotto gli occhi di tutti, ma profitti ottimi per le imprese appaltatrici di quei servizi.
Dallo Stato al mercato: questo è il percorso che abbiamo seguito in Italia in nome di una scelta politica. Una scelta sbagliata attuata con strumenti legislativi sbagliati. Solo nel comparto delle Funzione Centrali potrei citare un gran numero di casi, ma mi limito a ricordare quello della Motorizzazione Civile, dove è in questi giorni in atto la mobilitazione del personale per protestare contro l’imminente passaggio ai privati degli esami per la patente di guida.
Ma secondo voi, dopo anni di mannaia neoliberista, come poteva andare a finire un sistema di gestione e di programmazione della P.A. congegnato in questo modo? Male, naturalmente. Governi di tutti i colori hanno fatto a gara a chi smontava di più la macchina amministrativa pubblica. Qualche numero. Le Funzioni Centrali nel 2001 potevamo contare su 330.400 dipendenti in servizio, alla fine del 2020 erano ridotti a 214.335: in vent’anni abbiamo perso più di un terzo del personale. Per non parlare dell’invecchiamento anagrafico dei dipendenti, per il quale ormai in Italia deteniamo una specie di record mondiale. In cambio di cosa? Di un miglioramento delle condizioni retributive? Meno dipendenti, ma meglio pagati? Niente affatto, perché sempre i numeri ci dicono che negli ultimi vent’anni l’andamento della spesa reale per il pubblico impiego in Italia, al netto dell’inflazione, è scesa quasi del 15%, mentre negli altri Paesi dell’Unione è cresciuta in media del 12%. Il che significa due cose:
- primo, che il pubblico impiego da vent’anni finanzia di fatto la spesa pubblica generale (compresi gli interessi sul debito pubblico) la quale, nello stesso periodo, è cresciuta di 6 punti rispetto al PIL;
- secondo, che i dipendenti pubblici italiani hanno subito e stanno subendo un progressivo impoverimento imposto attraverso l’abbattimento programmato del reddito da lavoro e del potere d’acquisto delle retribuzioni.
Bene: avete letto, credo, le ulteriori penalizzazioni del comparto pubblico contenute nell’ultima legge di bilancio con quei 3 miliardi e mezzo di tagli alle spese dei Ministeri nei prossimi tre anni. A questo ennesimo salasso vanno aggiunti i mancati stanziamenti per i rinnovi contrattuali del triennio 2022-2024 e con l’immancabile leggina speciale con sui si discriminano i pubblici rispetto ai privati nell’applicazione della cosiddetta “quota 103”.
Molti di voi sanno che la strategia della penalizzazione ha molte facce. La più eclatante, per quanto mi riguarda, è la riserva di legge in materia di organizzazione del lavoro, per effetto della quale la contrattazione collettiva viene esclusa dai processi decisionali su argomenti importantissimi per l’efficienza e la qualità del lavoro. E vorrei ricordare che la qualità dei risultati è strettamente correlata alla misurazione della performance per l’erogazione dei premi di produttività. Eppure, oggi la contrattazione è esclusa dalla pianificazione dei fabbisogni professionali, dalla definizione degli obiettivi da raggiungere, dai criteri di adeguatezza dei supporti infrastrutturali, dalla scelta delle priorità programmatiche su cui è necessario investire risorse anche in termini di formazione. Non è possibile che nel 2023 i vertici politici e amministrativi delle pubbliche amministrazioni non siano tenuti a confrontarsi con il sindacato dei lavoratori su questi temi.
Un’altra penalizzazione è la vergognosa tassa sulla malattia introdotta quando i dipendenti pubblici non erano ancora “eroi” da pandemia e “volti” della Repubblica, ma solo fannulloni assenteisti che turbavano il sonno del Grande Riformatore. Quella della trattenuta straordinaria sulle giornate di malattia è un’ingiustizia clamorosa che va avanti nell’indifferenza pressoché generale da 15 anni. Qualunque sia la cifra risparmiata, è immorale fare cassa sulla salute dei lavoratori. E chiedo ai politici che oggi sono qui presenti se non pensano che sia arrivato il momento di porre fine a questa ignominia.
Un’altra penalizzazione che investe i lavoratori pubblici è costituita dell’ipertrofia degli adempimenti amministrativi che stanno soffocando le pubbliche amministrazioni sotto una montagna di scartoffie mentre negli uffici c’è una carenza disperata di personale e le poche risorse disponibili andrebbero impiegate per svolgere attività utili alla collettività. Invece gli uffici sono impegnata a compilare annualmente piani: Piano della performance, dei fabbisogni, della trasparenza, della digitalizzazione, della sicurezza e così via. La babele è tale che hanno dovuto inventarsi il Piano dei Piani per provare a metterli tutti insieme in un unico documentone annuale, che ci vogliono dei mesi per metterlo insieme.
Un’altra penalizzazione, oggetto di questo convegno, riguarda l’ignobile discriminazione sul trattamento di fine servizio che danneggia i dipendenti pubblici rispetto a quelli del settore privato. Solo in un Paese la cui classe dirigente ha deciso a tavolino di smontare la pubblica amministrazione si può tollerare una legge che impone ai lavoratori del settore pubblico di chiedere un prestito alla banca, pagandoci sopra un congruo interesse, per avere la propria liquidazione senza dover attendere tempi biblici dopo il pensionamento. Ma vi rendete conto? Stiamo parlando di soldi che sono proprietà dei lavoratori, trattenuti mese per mese dalla loro busta paga per quarant’anni!
In ordine di tempo l’ultima penalizzazione è rappresentata dalle preannunciate modifiche al codice disciplinare dei pubblici dipendenti. Ennesima discriminazione a danno dei lavoratori pubblici, perché si vorrebbero autorizzare le amministrazioni a sorvegliare ed eventualmente sanzionare l’attività sui social dei propri dipendenti fuori dall’orario di lavoro. Un principio, pericolosissimo, che mina la libertà di parola facendo riferimento a una generica esigenza di tutela dell’immagine e del prestigio del datore di lavoro. Per ora il Consiglio di Stato ha fermato il provvedimento, ma è facile prevedere che il governo tornerà alla carica, anche perché può fare leva su una legge in tal senso già approvata dal governo precedente.
In conclusione: superare le tante forme di discriminazione che oggi in Italia penalizzano il lavoro pubblico rappresenta una necessità per tutto il Paese. Una necessità di natura culturale che ormai è divenuta impellente e non più rinviabile, anche perché stiamo scoprendo che il lavoro pubblico è diventato poco appetibile per i giovani, specie per quelli più motivati e preparati. Lavorare nella P.A. pare che non sia più il grande sogno di tutti. Per questo io penso che dire stop alle penalizzazioni di chi lavora nel pubblico, di qualunque tipo esse siano, di natura retributiva o giuridica, è come dire stop a un processo di distruzione della P.A. che dura ormai da troppi anni. Proviamoci tutti insieme a fermare questa barbarie. Proviamo a invertire la tendenza. Ma facciamolo cominciando a ridare dignità al lavoro pubblico. E a restituire a chi lavora per il bene comune l’orgoglio di appartenere a una collettività che conosce e riconosce il valore del suo impegno.
Sandro Colombi, Segretario generale UILPA