Pubblichiamo il quarto di una serie di interventi sul tema dell’impiegato nella letteratura del XIX e del XX secolo. Questi interventi hanno la loro origine nel corso di Letterature comparate dell’Università di Perugia, e sono stati scritti sia da docenti, che da studenti che a quel corso hanno preso parte attivamente.
La figura dell’impiegato nel modernismo europeo
Il modernismo europeo fa sua la descrizione dell’impiegato tratteggiata da Dostoevskij ne Il sosia e in Memorie del sottosuolo. Eludendo la tradizione francese, che da Balzac in poi sembra più attenta ad una rappresentazione corale del mondo impiegatizio piuttosto che ad una focalizzazione sul singolo, si nota che autori come Kafka (La metamorfosi su tutti), Joyce (Rivalsa e Un caso pietoso), Svevo (da Una vita a Una burla riuscita), Pirandello (Il treno ha fischiato e Tu ridi) e Tozzi (Ricordi di un giovane impiegato) mostrano delle costanti, in continuità con quanto anticipato dal mondo russo.
Innanzitutto il mondo chiuso dell’ufficio è un campo di battaglia, in cui il personaggio deve sopportare primariamente l’aperta ostilità dei suoi colleghi, senza del resto avere la forza sufficiente per battersi con loro: nei Ricordi di un giovane impiegato ad esempio Leopoldo Gradi nota che, quando si presenta alla stazione di Pontedera dove è stato assunto, i suoi futuri compagni «sembrano adirati e scontenti»; e così accade in Una vita (Alfonso Nitti non gode della complicità di nessuno), in Una burla riuscita (Somigli è deriso per i suoi sogni letterari), o, per uscire dai confini italiani, a Farrington, in Rivalsa, che vede gli altri rivolgersi a lui «in tono brusco». Ma ancora più minacciosa è l’ostilità dei superiori: in Tu ridi, ad esempio, Pirandello descrive un capoufficio che compare in sogno per «cacciare la punta del suo crudele bastone nel deretano» dei suoi impiegati; in Rivalsa Mr Alleyne può ingiuriare Farrington urlandogli contro: «Ma voi non sapete niente di niente!»; mentre ne La metamorfosi il procuratore ha chiaramente un ruolo censore e di controllo.
Rispetto al passato, però, nella fase modernista l’eroe-impiegato è colto anche nei suoi affetti familiari, i quali possono essere essenziali e insoddisfacenti (come nel caso di Svevo: Samigli vive col fratello, Alfonso Nitti ha solo la madre), o drammaticamente ingombranti, da divenire ingestibili (Tu ridi e Il treno ha fischiato in Pirandello, o la famiglia-parassita di Gregor Samsa). Inoltre, ed è ciò che è doveroso sottolineare, i rapporti familiari sono tutti permeati dalla questione economica e richiedono di misurare i moti affettivi in corrispettivi in denaro. I pirandelliani Anselmo e Belluca devono necessariamente lavorare in ufficio per sopperire a tutte le necessità familiari; e quando Gregor diviene insetto si preoccupa in primo luogo di immaginare come farà la famiglia – in cui nessun membro lavora – a mantenere il medesimo tenore di vita («che sarebbe accaduto se ora invece ogni tranquillità, ogni benessere, ogni contentezza doveva rovinare paurosamente?); ma da dinamiche economiche sono informati i rapporti di amicizia di Farrington (offre e gli viene offerto da bere, secondo un’attenta divisione; tant’è vero che quando finiscono i propri scellini Higgins e Nosey Flynn abbandonano la combriccola di amici; lo squattrinato Weathers, che invece resta, viene definito uno «scroccone»), e quelli più strettamente familiari di Alfonso Nitti e Mario Samigli.
Ora, l’allargamento dell’indagine alla sfera familiare (che mai si configura come un sostegno; non così è nell’Ottocento, come mostra Les employés di Balzac), nel romanzo impiegatizio ha una funzione decisiva. Se con Dostoevskij la crisi sembra consumarsi tutta all’interno del protagonista, senza invece anche un moto dall’esterno (il mondo sociale ed esteriore), con i modernisti la questione si presenta più articolata, distendendosi sia sul piano affettivo che su quello lavorativo. Ma soprattutto tra i due livelli sembra esserci un rapporto di causa ed effetto, sebbene molto spesso in forma bidirezionale. Farrington, per citare ancora Rivalsa, sembra un eroe sconfitto per le continue «offese ricevute in vita sua [che] lo mandavano in bestia»; ma nel racconto sono specificamente i soprusi del capoufficio a intossicare il protagonista e a fargli sentire «il bisogno di vendicarsi e l’astio verso se stesso e tutti gli altri»; e la «collera» e il «desiderio di vendetta» alla fine del testo possono sfogarsi soltanto sul figlio indifeso, che viene bastonato «selvaggiamente». Insomma famiglia e lavoro sembrano essere due vasi comunicanti. La sfera professionale si risolve in un impiego che non dà alcuna soddisfazione e da cui si vorrebbe fuggire, e si trasforma in una prigione, che apparentemente non lascia vie di fuga: «Gregorio era condannato a lavorare in una ditta, presso la quale la più piccola trascuratezza provocava il maggior sospetto». Ma con i medesimi tratti carcerari si sviluppa la casa; e non solo nelle dinamiche affettive e psicologiche, ma anche architettoniche: si pensi alla camera di Gregor Samsa, che, come opportunamente ricostruito da Nabokov ne Le lezioni di letteratura, è accerchiata da ogni suo lato.
Ne consegue una circolarità tragica, in cui le umiliazioni della vita subite in gioventù sono causa di un’inettitudine che trova espressione in un impiego umiliante che toglie ogni spirito identitario al personaggio: l’impiegato infatti non si riconosce nel lavoro che svolge (lo considera inutile e perciò alienante) ed è consapevole di essere clone dei suoi colleghi, o meglio elemento facilmente sostituibile poiché le sue mansioni non richiedono alcuna competenza. E la frustrazione lavorativa distrugge i legami affettivi, che si riducono solo a mutua assistenza economica. La crisi diventa così esistenziale e sociale al contempo; e, ma solo in apparenza, ugualmente irreversibile a quella messa in scena da Dostoevskij.
L’impiegato ribelle
Se si analizzano i finali di molte delle opere moderniste (o protomoderniste, come Una vita) non si fatica a notare come la vicenda dell’eroe impiegato abbia sempre esiti tragici: il suicidio, la follia, la spazzatura, la disillusione, la sconfitta in generale. E tuttavia non di solo crisi irreversibile è costituito il personaggio in esame. È indubbio infatti che alcuni dei suoi atti siano all’insegna della ribellione; e si usa il termine “ribelle” nell’accezione sartriana, ossia in opposizione a quella di “rivoluzionario”: se quest’ultimo ha una visione del dopo e aspira ad una palingenesi, il primo invece, così come è detto appunto da Sartre nel suo saggio su Baudelaire, è caratterizzato solo da istanze oppositive, distruttive, di sabotaggio.
Ebbene alcuni di questi moti ribelli sono immediatamente riconoscibili: sia qui sufficiente ricordare Alfonso che va a letto con la figlia di Maller (e non tanto per motivi di carriera, quanto per sporcare il potere che lo sovrasta), o a Farrington che dà pubblicamente dello «scemo» a Mr Alleyne (e lo stesso Farrington non può certo essere definito un impiegato modello, mancando in molti dei suoi compiti); mentre in Pirandello, che è il più istituzionale tra i modernisti, l’aggressione al capo deve essere filtrata dalla follia, che in qualche modo assolve, deresponsabilizza, sminuisce (si pensi agli insulti di Belluca).
Ma è nell’istinto autodistruttivo che si consuma la ribellione.
Ognuno di questi personaggi avverte la propria esistenza come una gabbia sociale, che si struttura come un ingranaggio di cui l’eroe costituisce solo la proverbiale rotella. E di fronte a questo “stritolamento” l’impiegato modernista tenta opere di sabotaggio. Gregor Samsa, per dirla con Fortini, si libera «dei piaceri della schiavitù», e trasformandosi in scarafaggio mette in ginocchio il sistema economico del padrone-famiglia. E in fondo in forme diverse, e ripetiamo meno eversive, anche Belluca mette in moto lo stesso meccanismo: il suo treno fischiante è una momentanea sospensione dalla produzione incessante [come il sogno di Tu ridi]. Mentre Nitti, proprio nel momento in cui potrebbe conquistare il benessere, e sposando Annetta potrebbe passare tra la schiera degli oppressori, prima fugge dalla madre e poi, con sottrazione totale, si suicida (e in questo procedimento si nota tutta la distanza che lo separa dall’amica Francesca, che invece accetta la relazione con Maller e guida l’amico verso il matrimonio e dunque, seguendo una logica utilitaristica, una posizione di rilievo). L’autodistruzione potremmo dire è una sorta di tirarsi fuori dall’ingranaggio: e non tanto per salvarsi, quanto per inceppare, sia pure per poco, il sistema economico nel quale si è inseriti. L’obiettivo ultimo è dunque quello della decrescita, del rallentamento, di una diversa organizzazione del lavoro e della società: il primo passo verso una qualche forma di liberazione dell’uomo. Sono temi peraltro estremamente attuali, che dimostrano una volta di più quanto sia utile, ancora oggi, interrogare i testi del modernismo europeo.
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