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Intervista a Sandro Colombi. «Sul rinnovo del contratto collettivo c’è molto da discutere ma il clima è buono»

Il 29 aprile scorso si sono aperte le trattative per il rinnovo del CCNL 2019-2021 delle Funzioni Centrali. Qual è la sua impressione rispetto alle dichiarazioni del presidente dell’ARAN, Antonio Naddeo?

L’impressione è positiva. Mi pare ci sia la forte convinzione di procedere nella discussione sulla base del fatto che l’atto di indirizzo fa riferimento ai contenuti del Patto per l’innovazione firmato il 10 marzo scorso. Dunque, credo di poter dire che l’ampia prolusione del presidente Naddeo sia in linea con la volontà di rinnovare il contratto velocemente. Ovviamente nei tavoli di contrattazione ci sono parecchi argomenti da dibattere perché il comparto delle Funzioni Centrali è un sistema molto complesso. Ma questa non è certo una novità. In occasione dei rinnovi contrattuali da sempre vengono allestiti degli specifici tavoli tecnici per definire la parte normativa e quella economica.

 

Immagino che in questi tavoli tecnici i temi da discutere saranno parecchi. Può accennarne uno di tipo generale?

Certo. Per esempio consideri che dobbiamo ancora meglio definire il passaggio nel contratto collettivo Funzioni Centrali del corpus normativo preesistente alla creazione del nuovo comparto. Con il contratto collettivo 2016-2018 abbiamo iniziato l’operazione, ma molte clausole sono ancora disperse nei contratti collettivi dei vecchi comparti e vanno recuperate. D’altronde non era possibile completare il passaggio in un’unica tornata contrattuale. A febbraio 2018 venivamo da dieci anni di mancata contrattazione rispetto alla quale erano state emanate delle norme che sostituivano il contratto. Per l’attuale trattativa abbiamo proposto degli articoli favorevoli ai lavoratori che però vanno a cozzare con le norme del passato e con bizzarre interpretazioni di alcune amministrazione e addirittura di alcuni singoli dirigenti. È chiaro che deve essere fatto un attento raccordo per rendere la cornice contrattuale immune da eventuali interpretazioni penalizzanti per i lavoratori. Per essere più precisi: il contratto si deve basare su un contesto normativo coerente alla disciplina contrattuale stabilita nella trattativa e tutto l’articolato deve poi realizzarsi concretamente e senza intoppi.

 

Può fare un esempio a beneficio di chi non è esperto della materia?

Sì. Gli articoli sui permessi individuali sono stati malamente interpretati da diverse amministrazioni. Le quali sono arrivate a ridurre le ore di permesso, mentre il nostro obiettivo era esattamente l’opposto. Per capirci: faccia conto che un lavoratore abbia a disposizione 18 ore l’anno per visite mediche o indagini diagnostiche – e sappiamo bene quanto questo possa capitare data l’età media elevata dei dipendenti del pubblico impiego. Può succedere che la struttura sanitaria in cui deve recarsi il dipendente si trovi parecchio lontana dal posto di lavoro. Secondo noi nel permesso vanno conteggiati anche in tempi di percorrenza, mentre in base alla norma X o Y diverse amministrazioni questo tempo non lo considerano. In tutta evidenza si tratta di un atteggiamento che per il lavoratore costituisce un serio problema. 

 

Si respira un’aria di forte coesione fra UILPA, CGIL-FP e CISL-FP. Su quali elementi si fonda la vostra intesa?

Sul sistema valoriale confederale. Un sistema che ha sempre contraddistinto i rapporti tra le organizzazioni da lei citate. Per accordarci sappiamo che spesso è bene fare un mezzo passo indietro su una determinata richiesta per poi farne tutti insieme uno o più in avanti. D’altra parte l’obiettivo è comune: migliorare le condizioni dei lavoratori per offrire servizi di qualità ai cittadini. Aggiungo che al di là di ogni cosa c’è un valore trasversale a tenerci uniti: la solidarietà. Mi rendo conto che se solo tentiamo di approfondirlo il concetto di solidarietà si rivela più complesso di quanto non potrebbe apparire a prima vista. Ma il nocciolo alla fine è semplice: un mondo del lavoro, e persino una società, in cui individui e gruppi si sostengono a vicenda, si ascoltano e si vengono incontro sono luoghi migliori in cui vivere e sono persino più efficienti rispetto alla competizione selvaggia che ha dominato negli ultimi decenni e i cui pessimi risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ecco perché il sindacato si batte per la valorizzazione dei lavoratori. Non si tratta di una questione soggettiva. Se si vive in un ambiente di lavoro positivo i prodotti e i servizi che ne escono sono migliori, non c’è dubbio. E questo principio vale sia per il pubblico che per il privato.   

 

Seppure a macchia di leopardo il sindacalismo autonomo ha ultimamente registrato una crescita nel settore pubblico. A suo parere che atteggiamento avranno al tavolo contrattuale?

Spero che sia un atteggiamento collaborativo. Anche se debbo registrare che alcune sigle hanno manifestato una certa intolleranza per il Patto per l’innovazione perché non lo ritengono uno strumento adatto per il rinnovo contrattuale. E nemmeno sembrano convinti che la riforma dell’ordinamento professionale possa costituire un catalizzatore per nuove risorse economiche. Non mi sfugge che il sindacato autonomo nasca in contrapposizione alle tre grandi confederazioni e chiaramente cerchi di ritagliarsi uno spazio per differenziarsi. Lo dico senza alcun intento polemico: sono posizioni legittime e creare spazi di manovra fa parte del gioco. Naturalmente, a me questo tipo di critiche sembrano un po’ esagerate perché attaccare il Patto per l’innovazione significa sottovalutare l’opportunità che rappresenta. Le dirò: magari potesse essere realizzato integralmente. Se ne gioverebbero tutti i lavoratori, al di là dell’appartenenza sindacale. È tuttavia utile ricordare che in Italia i governi cambiano spesso e i patti non sempre vengono rispettati. Nel nostro caso però il Patto per l’innovazione porta la firma del presidente del Consiglio e questo dovrebbe costituire una garanzia in più.  

 

Nel suo discorso di apertura della trattativa lei ha elencato una serie di obiettivi. Quali sono quelli che considera irrinunciabili?

 Il ritorno a una contrattazione vera e alla possibilità di ridisegnare un quadro normativo. Entrambi questi obiettivi devono corrispondere ai bisogni delle professionalità dei dipendenti del pubblico impiego nella prospettiva di migliorare l’efficienza dei servizi. Un altro traguardo che consideriamo di fondamentale importanza è l’incremento del welfare aziendale. Sotto questo profilo la pubblica amministrazione sconta un’arretratezza notevole, anche di tipo culturale, nei confronti del comparto privato. Mi riferisco, per esempio, alle polizze sanitarie.

Se lei considera che cosa è stata l’evoluzione del welfare contrattuale nel settore privato e lo paragona al settore pubblico, c’è da mettersi le mani nei capelli. Ma il welfare contrattuale ha un costo perciò nel pubblico non è mai stato all’ordine del giorno. Nei settori più avanzati del lavoro privato la copertura sanitaria integrativa è finanziata con risorse aggiuntive che provengono sia da contributi ad hoc dei datori di lavoro, sia da versamenti dei dipendenti. E la contrattazione collettiva è la fonte primaria che disciplina tutta la materia, settore per settore, fissando le quote contributive a carico delle aziende e degli iscritti ai fondi sanitari. Da noi, purtroppo, siamo praticamente all’anno zero.

Altri due obiettivi che intendiamo perseguire sono rappresentati dal mantenimento dell’assetto del Patto per l’innovazione e dal nuovo ordinamento professionale. Ultimo, ma non certo per importanza, c’è poi ovviamente l’aspetto economico.

 

E allora parliamo proprio dell’aspetto economico. Quale sarà l’effettivo aumento in busta paga per i lavoratori del suo comparto?

Il Patto per l’innovazione prevede la possibilità da parte del governo di stanziare risorse aggiuntive sia per l’ordinamento professionale sia per il rinnovo contrattuale. Noi siamo partiti da un rinnovo contrattuale che si aggira su un aumento del 4,06%. Siccome le risorse economiche ci sono si tratta di articolarle. Le faccio un esempio. Se nel tabellare calcoliamo anche l’indennità di vacanza contrattuale e l’elemento perequativo, si altera l’entità del valore economico complessivo che il dipendente percepirà. Un altro esempio: ottenere la defiscalizzazione di alcune parti del salario accessorio significa, come per i privati, buste paga più pesanti. Non dimentichi che a suo tempo i famosi 80 euro di Renzi altro non erano che un’agevolazione fiscale.    

 

Segretario, abbia pazienza, in moneta sonante l’aumento mensile a quanto corrisponderà? Si è parlato a lungo di 107 euro. Conferma?

 Certo. Proprio perché se ne è parlato a lungo lo davo per un dato acquisito. È un aumento garantito per il quale si tratta solo di muovere le leve giuste per stabilizzare alcune quote. Esattamente come le dicevo per le defiscalizzazioni o l’abbattimento della soglia prevista dall’articolo 23 del decreto legislativo 75 del 2017 – uno dei decreti più importanti della cosiddetta riforma Madia della pubblica amministrazione -, che prevede l’impossibilità di incrementare i Fondi unici di amministrazione oltre un tetto stabilito. Togliendo questo tetto le progressioni economiche, o la moneta sonante come l’ha chiamata lei, sono molto più facili da ottenere. Discuteremo anche di questo al tavolo contrattuale. Ma sono ottimista. Il clima è buono.

 

Secondo la UILPA gli incrementi economici dovrebbero premiare di più il salario tabellare fisso o quello accessorio, legato alla produttività?

 Sicuramente il tabellare fisso. Per quanto riguarda la produttività, come le dicevo, occorre sbloccare i limiti imposti dall’articolo 23. Si tratta di fattori complementari. Da un lato, dobbiamo fare in modo che anche per gli effetti pensionistici si abbia il maggior quantitativo economico spostato sul tabellare fisso; dall’altro, se superiamo il tetto imposto dall’articolo 23 abbiamo la possibilità di gestire meglio e più efficacemente le progressioni economiche. E non dimentichiamoci che in contemporanea al contratto stiamo immaginando il nuovo ordinamento professionale. Il che significa finalmente prendere di petto l’atavico problema del mansionismo, prevedere una norma di primo inquadramento, di ricollocazione, di nuova taratura di tutte le posizioni dei singoli dipendenti e che noi abbiamo già quantificato intorno ai 500 milioni di euro.

In sostanza, il nuovo ordinamento professionale dovrebbe sanare le storture del passato e costituire uno strumento formidabile per i lavoratori del futuro proprio per evitare che ci sia, come invece è stato per troppo tempo nella pubblica amministrazione, il blocco della valorizzazione delle professionalità. Se un dipendente segue la formazione permanente, si riqualifica professionalmente, aumenta le proprie competenze, bene, tutto questo gli deve essere riconosciuto anche sul piano economico per il semplice fatto che le sue prestazioni saranno migliori. Di conseguenza, anche i servizi erogarti all’utenza saranno migliori. Ecco perché il dipendente va premiato.

 

Chiudiamo in bellezza. Il Ministro della Funzione Pubblica ha recentemente affermato che intende passare dagli attuali 3,2 milioni di dipendenti pubblici a 4 milioni. È un obiettivo realistico?

Eccome se lo è. Basta che ci sia la volontà politica. In concreto ciò significa stanziamento di risorse e una nuova modalità concorsuale che accorci drasticamente i tempi di assunzione. Come ho già avuto mondo dire, su quest’ultimo aspetto attendiamo atti concreti da parte del Ministro. Penso e spero che tali atti giungano presto perché l’emorragia di dipendenti pubblici negli ultimi anni è stata tale che adesso occorre recuperare in fretta. Allo stesso tempo la fretta non deve essere cattiva consigliera perché prima di ogni cosa va fatta una attenta ricognizione dei fabbisogni di personale di ogni singola amministrazione.

Noi siamo felicissimi per l’ingresso di centinaia di migliaia di lavoratori nella pubblica amministrazione. Ma che siano quelli che servono davvero a rendere la macchina dello Stato in grado di fornire servizi di qualità al pari di quelli degli Stati europei più avanzati. Dentro questo ragionamento ci metto il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, la digitalizzazione e le nuove professionalità. Ci metto dentro anche il fatto che il sindacato non può essere tenuto fuori dalla porta quando si decidono i fabbisogni di personale. D’altra parte noi trattiamo con le amministrazioni i profili professionali, ne creiamo di nuovi, li discutiamo, scriviamo le declaratorie e poi quando arriva il momento di stabilire quanti dipendenti debbono essere assunti, anche in funzione di coloro sono andati in pensione, alcuni dirigenti si riuniscono in camera caritatis e decidono per tutti. E magari, come è capitato, senza tener conto dei profili professionali che abbiamo stabilito in comune accordo qualche giorno prima. Poi, bontà loro, informano le organizzazioni sindacali. Questo meccanismo va definitivamente superato. Lo consideri un altro dei nostri obbiettivi irrinunciabili.     

Roma, 2 maggio 2021

A cura dell’Ufficio comunicazione Uilpa

 

In allegato l’intervista in PDF

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