Pubblichiamo il quinto di una serie di interventi sul tema dell’impiegato nella letteratura del XIX e del XX secolo. Questi interventi hanno la loro origine nel corso di Letterature comparate dell’Università di Perugia, e sono stati scritti sia da docenti, che da studenti che a quel corso hanno preso parte attivamente.
Dal 1912 al 1914 Franz Kafka scrive (e in qualche caso pubblica) alcune opere che daranno una decisiva accelerazione alla sua parabola letteraria: fra i testi composti in questi periodo spiccano i racconti La condanna, La metamorfosi e Nella colonia penale e i romanzi (frammentari e più volte interrotti) Il disperso (poi America) e Il processo. Sono anni di svolta, segnati anche dall’incontro – nell’agosto del 1912 – con Felix Bauer a cui è dedicata La condanna, scritto nella notte fra il 22 e il 23 settembre del 1912.
Di figure legate ad un lavoro opprimente, ripetitivo e umiliante sono piene le pagine kafkiane: sono impiegati Gregor Samsa e Joseph K.; impiegato è Georg Bendemann e, con variazioni, sono impiegati, o comunque lavoratori dipendenti, i protagonisti di Un medico condotto, Il Castello, Il digiunatore. Tutti i personaggi citati sono, inoltre, giovani impiegati. Ma c’è una differenza profonda fra l’impiegato che incontriamo nelle pagine di Tozzi e Georg Bendemann o Joseph K.: questi ultimi sono uomini di successo, figure che la scrittura fa scontrare con un Evento che spesso resta fuori dallo spazio diegetico. K. è procuratore di una grossa banca e, nonostante abbia continuamente a che fare con un capufficio (il vice-direttore) subdolamente antagonista, sembra caratterizzato da quella stabilità economica più affine al mondo di Zeno Cosini, che a quello di Remigio Selmi o Leopoldo Gradi. Non è un particolare secondario, visto che la potenza economica si manifesta sempre sul piano simbolico: in quanto giovani di successo, sia K. che Georg Bendemann sono, almeno all’inizio della narrazione, figli forti e sani. Persino il povero commesso viaggiatore Gregor Samsa, piegato da una professione dura, sembra avere fra le mani le sorti economiche di tutta la famiglia in disgrazia. Ma la ricchezza – o almeno la stabilità sul piano lavorativo – non dà alcuna indipendenza: i legami familiari li invischiano, i soldi guadagnati sono da spendere per colmare vecchi debiti (La metamorfosi), o rappresentano il frutto di una eredità legata alla professione paterna (La condanna). In Kafka il segno delle cose è continuamente ribaltato e ogni elemento può avere più attributi contemporaneamente: una infrazione della logica diurna a vantaggio di una irrazionalità che fa sistema seguendo le proprie leggi. Il miracolo della scrittura kafkiana sta qui, nella sua capacità di unire irrazionalità e naturalismo, un paradosso che fa esplodere cose, situazioni e personaggi. Prendiamo la prima pagina della Metamorfosi, col celebre incipit entrato a far parte dell’immaginario popolare:
Gregor Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo.i (1)
Kafka è il prestigiatore che ci distrae con la mano sinistra mentre, con la destra, sfila dalla tasca della giacca l’oggetto nascosto. È ovvio che il lettore, a qualsiasi livello (dal più ingenuo e aperto, al più critico e sospettoso), non potrà che soffermarsi su quell’unica cosa che il testo non vuole e non può raccontare: l’evento. Perché un povero commesso viaggiatore dovrebbe svegliarsi trasformato in uno scarafaggio? È come se il titolo del racconto avesse pre-determinato il destino dell’uomo. Ma c’è un aspetto ancora più clamoroso in questo incipit: in nessun punto, dalla prima all’ultima parola della citazione, c’è spazio per la domanda “perché?”. In tutto il racconto è il “come” a dominare: “come posso fare” – sembra chiedersi Gregor – “a vivere, ora che sono diventato uno scarafaggio?”. L’evento allegorico, che costringe il lettore a interrogarsi sul senso perduto, orienta la ricerca in direzione sbagliata: faceva bene Fortini a suggerire di trattare Kafka in modo letterale, di non seguire, se non con diffidenza, quel movimento della mano del prestigiatore che ci chiede di addentrarci nei labirinti del Talmud o della Bibbia. Eppure, anche con queste premesse, resta il paradosso che continuamente troviamo in questo e in altri testi kafkiani: come può fare Gregor Samsa a cavarsela, ora che è diventato un disgustoso scarafaggio? Mai, Gregor, si interroga sulle cause della propria metamorfosi ed anche la sua famiglia, sconvolta e disgustata dall’essere mostruoso che vive in camera del figlio, non si dedica mai ad una inchiesta sulle sorti del giovane. È una scrittura che investiga, con modi naturalisti, le illimitate possibilità del rappresentabile: sono consapevole del rischio nell’uso della categoria di naturalismo, eppure il fascino misterioso della scrittura kafkiana risiede proprio nello scontro fra realismo e nuove forme della modernità. La forma si adatta ad un’anima novecentesca in cui il paradosso logico è come un represso che ritorna continuamente nei testi. Gregor, figlio e impiegato, viene estratto dal meccanismo vitale, sottoposto ad una condizione estrema e il mantenimento della coscienza (che non lo abbandona, a differenza del linguaggio) rende grottesco l’esperimento: è una cronaca perfettamente razionale di un mondo sconvolto da un evento incomprensibile. È con la doppia lente del compromesso che va dunque letto il testo: Gregor è il giovane impiegato da cui dipendono le sorti della famiglia, la sua trasformazione in scarafaggio lo mette in stato d’allegoria. L’agitazione della famiglia che, al risveglio, lo trova ancora in camera mezzo addormentato è l’agitazione dei sottomessi, che sono costretti a dissimulare l’ansia davanti ad una figura da rispettare. La madre apprensiva, la sorella preoccupata e invadente, perfino quel padre vecchio e stanco che bussa «debolmente, ma con il pugno»ii. Nell’antitesi si condensa la capacità di Kafka di trasformare continuamente cose, situazioni e segni. La metamorfosi del titolo è quella che colpisce Gregor, ma è anche quella che subisce il padre, che, costretto a tornare a lavoro perché il figlio non è più un elemento produttivo del sistema, risorge e ritorna gigantesco e minaccioso, figura di Legge che indossa (anche in casa, rifiutandosi sempre di toglierla) l’uniforme di usciere con i suoi bottoni dorati. La metamorfosi del padre, proprio come quella di Gregor, è tenuta fuori dalla diegesi:
Gregor levò il capo verso il padre; non se l’era davvero immaginato come gli stava davanti ora: veramente negli ultimi tempi aveva trascurato, con quella sua nuova maniera di passeggiare attorno, di occuparsi come prima degli avvenimenti che riguardavano il resto della casa, e doveva quindi esser preparato a trovare dei mutamenti: ma davvero, davvero era quello ancora suo padre? Lo stesso uomo che prima sembrava come seppellito nel letto dalla stanchezza, quando Gregor partiva per un viaggio d’affari? […] Ma ora se ne stava ben dritto con un’attillata uniforme blu, ornata di bottoni d’oro, come le portano gli uscieri delle banche: sopra il colletto alto e duro della giubba sporgeva il suo grosso doppio mento; dalle folte sopracciglia lo sguardo degli occhi neri usciva vivace e attento; i suoi capelli bianchi sempre in disordine erano costretti in una pettinatura a divisa, penosamente precisa e lucente.iii
Sotto i nostri occhi avviene invece la metamorfosi di un altro padre: quello di Georg Bendemann, protagonista della Condanna, scritto nello stesso anno della Metamorfosi. Anche in questo caso l’Evento è posto fuori dalla diegesi e la scrittura gli si avvita attorno senza offrire alcuna risoluzione sul piano logico, né su quello dei fatti rappresentati. Georg Bendemann, giovane commerciante, ha appena terminato di scrivere una lettera ad un amico, da anni emigrato a Pietroburgo. Nonostante i due abbiano intrattenuto rapporti epistolari, Georg lo ha sottoposto ad un progressivo regime di reticenze per ragioni che nel testo restano sfumate: paura di invidia, timidezza, disagio. Georg, infatti, non ha mai raccontato all’amico del propri successi economici (da impiegato del padre a direttore commerciale) e personali (il fidanzamento e l’imminente matrimonio), dunque la lettera con cui si apre il racconto ha un valore particolare, visto che Georg ha intenzione di rompere la rete di reticenze che aveva costruito negli anni. Si reca dal padre per comunicargli la propria risoluzione e lo trova solo, in una camera buia e dall’aria viziata. Una vestaglia, il giornale fra le mani, vestiti all’apparenza poco puliti: una figura debole e in fase di rimozione, che Georg stesso porterà a letto in braccio come si fa con i bambini. E qui, di nuovo, il miracolo: a Georg, che informa il padre del proposito di raccontare tutta la verità all’amico lontano, il vecchio risponde in tre modi diversi e sempre più clamorosi:
1. Non ricordo il tuo amico a Pietroburgo.
2. Tu non hai alcun amico a Pietroburgo.
3. Conosco bene il tuo amico a Pietroburgo, così bene che, mentre tu gli scrivevi le tue lettere piene di menzogne, io ho continuato a scrivergli, trattandolo come un figlio e dicendogli sempre la verità.
Due regimi di verità esplodono nel testo e, se l’impianto naturalista ci suggerirebbe di guardare agli atteggiamenti del padre come effetto di una demenza senile in stadio avanzato, il racconto modernista va da un’altra parte e il padre si trasforma in giudice implacabile che condanna Georg a morire affogato. Prima del tragico suicidio, però, il testo registra una metamorfosi, che era ancora in absentia nella storia di Samsa e che qui, invece, accade davanti agli occhi di Georg e del lettore:
Intanto Georg era riuscito a rimettere il padre in poltrona, e a levargli le mutande di maglia che portava su quelle di lino, e anche a sfilargli i calzini. A veder quella biancheria non troppo pulita, si rimproverava di aver trascurato il padre. […] Sulle sue braccia portò il padre a letto. Ebbe una sensazione orribile quando si accorse che mentre faceva quei pochi passi verso il letto, il padre, sul suo petto, giocherellava colla catena dell’orologio. E non riuscì subito a stenderlo nel letto, da quanto egli si teneva saldo alla catena. […] «No!» gridò il padre con tanta forza che la risposta s’incontrò colla domanda e gettò indietro la coperta con tanto impeto che per un momento gonfiandosi, si stese tutta – e si rizzò sul letto. Solo con una mano si appoggiava un po’ al soffitto.iv
Il padre infantilizzato, sporco e debole – economicamente e fisicamente-, che si riprende il ruolo di giudice e carnefice implacabile, così alto da toccare il soffitto con le mani, una figura iperbolica che ci dice molto dello stato di compromesso con cui sono strutturati i testi di Kafka.
Sia quando gli impiegati sono figure di successo, che nei casi in cui il lavoro è più umile e faticoso, gli esiti sembrano gli stessi. La legge della famiglia, anche se in fase di rimozione, rimane un riferimento costante, che richiede attenzione e impone all’impiegato sacrifici su tutti i piani. I giovani possono credersi dominatori, ma restano sconfitti nel confronto con i padri, tanto più temibili quanto più appaiono deboli, sporchi e grottescamente desueti. Il compromesso logico che permette a Kafka di costruire un padre potente e diminuito assieme è quello che fonda anche il mistero della sua scrittura. Ed è questo l’accesso per provare a capire e spiegare il funzionamento della Legge: non c’è nulla di più terribile che essere giudicati da un dio decaduto e rimosso. La trascendenza non si vede, rimane fuori dai tribunali e fuori dalla pagina: le figure che dispensano la legge sono anche figure in fase di distruzione, come la macchina di Nella colonia penale, o i numerosi giudici inferiori e narcisisti del Processo. È la lezione che seguirà anche Beckett e che esprimerà col monologo di Lucky in Aspettando Godot: dio, forse, non è morto, ma è un vecchio demente con la bava alla bocca, che non è più capace di curarsi della propria creazione. Una prospettiva ancora più spaventosa per gli uomini che vivono e che vivranno.
NOTE
i F. Kafka, La metamorfosi, in Id., Racconti, Mondadori, Milano, 1970, p. 157.
ii Ivi, p. 160.
iii Ivi, p. 197.
iv F. Kafka, La condanna, in Id., Racconti, cit. p. 151.
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