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Il Capo di un Gabinetto è l’orologio del sistema amministrativo. Intervista a Guido Melis

Prof. Guido Melis

Guido Melis e Alessandro Natalini hanno curato un libro intitolato: Governare dietro le quinte. Storia e pratica dei gabinetti ministeriali in Italia 1861–2023 (il Mulino, Bologna, 2023, pagg. 208, 20,00 euro). Si tratta di un testo particolarmente importante per chi si occupa dello studio della Pubblica Amministrazione e dunque anche del ruolo che hanno ricoperto i gabinetti ministeriali nella formazione e poi nella gestione quotidiana dello Stato. Parliamo del libro con uno dei curatori, il Professor Guido Melis.

 

Come nasce la figura del Capo di Gabinetto?

 

All’indomani dell’Unità d’Italia i gabinetti ministeriali non esistevano. Come loro collaboratori i Ministri si avvalevano dei dirigenti del ministero stesso oppure di funzionari di carriera comunque provenienti dalle file della burocrazia interna del loro apparato. Con l’arrivo di Crispi si afferma la figura del Capo di Gabinetto, mentre il Segretario generale scompare per far posto al Sottosegretario di Stato. I tre titoli, i tre nomi, sono collegati: il Segretario generale assicurava il collegamento tra l’apparato ministeriale e il ministro esercitando funzioni politiche e amministrative insieme: era insomma una figura ibrida; il Sottosegretario di Stato, che lo sostituisce con la riforma Crispi, è invece una figura non più amministrativa ma politica, spesso è un parlamentare. Occorreva dunque colmare il vuoto: creare un legame ministro-apparato con competenze specificamente amministrative. Questo legame è impersonato dal Capo di Gabinetto. All’epoca, e anche durante il fascismo, il Capo di Gabinetto veniva scelto tra gli uomini dell’amministrazione, ma non aveva un grande potere. Era solo un semplice collaboratore del ministro addetto alla sua persona.

 

Quand’è che il Capo di Gabinetto acquista maggiore potere?

 

Con l’avvento della Repubblica. In quel tornante della nostra storia si assiste a un grande cambiamento e questo cambiamento costituisce il cuore del libro. Tutto cambia quando arriva la nuova leva di Ministri espressi dai partiti politici. I quali, non avendo grande confidenza con la Pubblica Amministrazione e non fidandosi dei vecchi direttori generali, formati in epoca fascista, decidono di creare delle strutture di collaborazione a loro fedeli. Strutture nuove, estranee all’organizzazione ministeriale e che coprano loro le spalle. Allo scopo chiamano a ricoprirle uomini che non provengono dall’apparato. Chi sono questi uomini? In prevalenza Consiglieri di Stato, membri della Corte dei conti, più tardi dell’Avvocatura dello Stato, e più recentemente Consiglieri parlamentari. Da queste quattro categorie proviene il maggior numero di Capi di Gabinetto dal 1945 ad oggi.

 

Col passare del tempo tali figure diventano il braccio destro dei Ministri rispetto ai quali godono di una maggiore stabilità, perché, caduto un governo, sono rinominati frequentemente dal successivo, nonostante il rapido susseguirsi degli esecutivi. Alla fine, i Capi di Gabinetto prendono di fatto le redini dell’amministrazione. Solo loro ne conoscono intimamente il funzionamento e sono in grado di dirigerla.

 

Qual è oggi il potere effettivo dei Gabinetti ministeriali e dei loro capi?

 

È un potere molto esteso. Innanzitutto, perché, come si diceva un tempo, “Il ministro firma ma non conosce”. Firma quel che il Capogabinetto gli sottopone. Certo, dopo il 1993, col decreto legislativo numero 29, l’alta burocrazia ha potere di firma su molta parte degli atti. Ma questo non toglie potere al Capo di Gabinetto, che resta il regista supremo dell’amministrazione. Il potere del Capo di Gabinetto aumenta anche in ragione della debolezza del Ministro. Insomma, il Ministro passa, mentre il Capo di Gabinetto spesso resta perché viene rinominato dal Ministro successivo. Capita addirittura che un Ministro cambi ministero e si porti dietro il suo Capo di Gabinetto perché lo ritiene indispensabile.

 

Può fare un esempio del potere accumulato dai Capi di Gabinetto?

 

Oltre agli studi statistici e a quelli storici, Governare dietro le quinte si basa su 40 videointerviste, che si possono trovare sul portale dell’Istituto Centrale per gli Archivi nella sezione Ti racconto la storia. Sono interviste lunghe, di un’ora e mezza l’una e molto eloquenti. Uno degli intervistati ha dichiarato che un Ministro con cui aveva collaborato firmava soltanto gli atti da lui precedentemente vidimati. Altri Capi di Gabinetto hanno confermato questa prassi. La responsabilità dunque passava dal livello più alto al gradino inferiore. Col passare degli anni la delega si è fatta sempre più frequente finché il Capo di Gabinetto non è diventato l’orologio che controlla tutto, l’orologio del sistema. Uno dei più bravi dei nostri intervistati, Francesco Battini, ci ha raccontato che la mattina presto lui arrivava al lavoro prima del Ministro e aveva già sul tavolo tutte le questioni aperte e le pratiche da visionare. Allora convocava i direttori generali, come si chiamavano a quel tempo, e con loro stabiliva chi doveva curare quella tal pratica, come si dovesse risolvere quel tal problema. Il Capo di Gabinetto diventa così una figura importantissima, un vero e proprio sostituto del Ministro. Il quale è spesso assente, impegnato in Parlamento, all’estero o col partito da cui proviene, e per forza di cose deve delegare il suo potere, altrimenti la macchina amministrativa non cammina.

 

Nel libro avete dipinto il ritratto di alcuni mitici Capi di Gabinetto. Qual è quello che l’ha colpita di più?

 

Non è facile rispondere a questa domanda. Comunque le cito due personaggi opposti tra loro: Alfonso Quaranta e Paolo De Ioanna. Quaranta dichiara nella sua intervista di essersi sempre limitato a eseguire le decisioni politiche prese dal Ministro, indipendentemente dallo schieramento politico. In tal modo rispettava alla lettera quanto dice la legge, e cioè che il Capo di Gabinetto è un collaboratore del Ministro. Al contrario De Ioanna rivendica di aver sempre collaborato anche alle decisioni e di averlo fatto solo coi ministri con cui condivideva il progetto politico. Ci troviamo quindi di fronte a due modelli radicalmente diversi: quello neutro, del civil servant inglese, e quello impegnato, del coinvolgimento diretto nella politica. Sotto questo profilo, la funzione del Capo di Gabinetto è così poco regolamentata da permettere a ciascuno di agire secondo il modello prescelto.

 

Le nuove tecnologie hanno aumentato o ridotto il potere dei Capi di Gabinetto?

 

Direi che rimane invariato. Tuttavia lei ha posto un problema importante perché noi non abbiamo ancora un’indagine complessiva sugli effetti del digitale nella Pubblica Amministrazione. Detto in parole semplici: ne sappiamo poco. Invece sappiamo con certezza che in Europa, nella gara al digitale, l’Italia è nei vagoni di coda. Sappiamo anche che il modello gerarchico di prendere decisioni è basato sul procedimento. Cioè la pratica passa da una scrivania all’altra, sale i tornanti della gerarchia e alla fine il responsabile la firma. Spesso i passaggi sono molto numerosi e comportano attese di anni prima di arrivare a conclusione. Indagini recenti ci dicono che questo è l’effetto perverso del procedimento amministrativo basato sull’ordine gerarchico. Ecco, il digitale potrebbe sconvolgere quest’ordine perché si potrebbe ottenere la decisione attraverso una videoconferenza tra tutti coloro che hanno il titolo per intervenire nella pratica eliminando così passaggi cartacei e telefonate. In tal modo si potrebbe alleggerire moltissimo il fardello dei tempi lunghi della cosiddetta burocrazia.

 

È comparsa finalmente la parola chiave: burocrazia. Lei è tra i pochi che non la demonizza. Perché?

 

Perché non esiste uno Stato che non abbia del personale al proprio servizio. Il problema non è di forma, è di sostanza. Vale a dire: come selezioni il personale, come lo distribuisci e chi lo dirige – e chi lo dirige va sottolineato tre volte. Perché senza un’azione di direzione l’amministrazione non funziona. E la vicenda dei Capi di Gabinetto ci dice implicitamente che i direttori generali non funzionano. Se funzionassero sarebbero, come in altre epoche della storia d’Italia, in grado di dirigere i loro apparati.

 

Professore, è un’affermazione molto forte…

 

Me ne rendo conto e gliela motivo. Il 1972 è l’anno in cui finalmente viene dato uno status separato alla dirigenza. Ossia si riconosce per legge che deve esistere una dirigenza amministrativa. Non che non esistesse prima di allora, come abbiamo appena visto. Ma nel ‘72 la si teorizza come un elemento fondamentale che deve stare al vertice dell’amministrazione. Beh, lì si comincia a fare un errore formidabile perché sotto la spinta di tutta una serie di interessi – che sono prevalentemente quelli degli strati medio-alti della burocrazia – la dirigenza viene espansa notevolmente. Noi abbiamo avuto in quegli anni una dirigenza che era il doppio di quella francese, che pure rappresentava il Paese della dirigenza per antonomasia perché in Francia i dirigenti vengono preparati da istituti ad hoc e sono dei personaggi potentissimi. In Italia l’eccesso di dirigenti ha creato un effetto perverso: tutti dirigenti nessun dirigente. D’altra parte è ovvio: quando ci sono troppi generali nessuno comanda. Si torna così al forte ruolo dei Capi di Gabinetto in risposta al dirigente debole.

 

La sua critica suggerisce che la politica abbia avuto un ruolo decisivo nell’indebolimento della dirigenza pubblica.

 

Esatto. Dal secondo dopoguerra in poi la politica non si è mai interessata della Pubblica Amministrazione; si è interessata al personale amministrativo perché è un serbatoio di voti. Ha iniziato Giulio Andreotti. Quando era sottosegretario alla presidenza di De Gasperi fece, per ragioni elettorali, un’infornata di avventizi. Cioè di coloro che avevano sostituito il personale dello Stato che era partito per la guerra. Non era infrequente che questi avventizi non avessero i titoli per il ruolo che occupavano. Alcuni privi di laurea vennero persino nominati dirigenti. Invece andava fatto un concorso, anche riservato, ma andava fatto. In forme diverse questa soluzione si è ripetuta molte volte. Per esempio, un’altra grande infornata si ebbe nel 1977 con la legge 285. Una legge micidiale perché permetteva la costituzione di cooperative di giovani, in genere organizzate dai partiti, che poi venivano reclutate nelle amministrazioni pubbliche e dopo qualche anno, con un concorsino interno, il personale di tali cooperative veniva assunto in pianta stabile.

 

È questa la principale modalità utilizzata dalla politica per bypassare i concorsi pubblici?

 

No, un’altra è costituita da diverse forme di cooptazione. Una di queste è la nomina di un esperto per una funzione che al Ministero non esiste. Una volta che l’esperto è entrato, si mettono in moto varie operazioni e il contratto si trasforma in rapporto stabile. In definitiva la pratica di privilegiare il personale senza selezionarlo ha visto la politica protagonista. Il che va a discapito della funzionalità amministrativa. Per come la penso io il personale va sempre selezionato sulla base di una prova paritaria attraverso la quale si assumono quelli che sono risultati migliori e li difendi dalle aggressioni interne. Cioè non deve entrare più nessuno dalle porte laterali soltanto perché ha la raccomandazione.

 

Roma, 3 dicembre 2023

 

A cura dell’Ufficio comunicazione UIL Pubblica Amministrazione

 

GOVERNARE DIETRO LE QUINTE – Link al libro

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