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«Fare il sindacalista ti insegna a usare il potere della parola.» Intervista a Paolo Pirani

Paolo Pirani, componente del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro

La parabola di Paolo Pirani rappresenta una parte importante della memoria storica del sindacato italiano e della UIL in particolare. Nel corso della sua lunga carriera Pirani è stato Segretario Regionale Uilm Veneto, Segretario UIL Vicenza, Segretario regionale UIL Veneto, capo Ufficio stampa UIL Nazionale, Componente della Segreteria Nazionale UIL con delega in materia di contrattazione sia per il settore pubblico che privato. È stato inoltre fondatore e Segretario generale della Uiltec dal 2013 al 2022. Lasciata l’attività sindacale per sopraggiunti limiti d’età Paolo Pirani è attualmente componente del Consiglio Generale UIL nonché componente del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni, tra le quali ricordiamo, La Uiltec al tempo della pandemia. Gli editoriali di “Industri@moci” dal 2020 al 2021, Arcadia Edizioni, Roma, 2021. Con Pirani proseguiamo la nostra carrellata di interviste finalizzate a tracciare un ritratto a tutto tondo della figura del sindacalista e del suo ruolo nella società.

 

Fare il sindacalista è un mestiere come un altro?

 

No, e lo dico in base alla mia esperienza personale. Prima di fare il sindacalista a tempo pieno ho svolto diverse attività tra cui il dirigente nell’allora Banca di Roma, oggi Unicredit. Però nulla mi ha dato il senso di libertà e di soddisfazione dell’attività sindacale. Infatti, uno dei periodi più difficili della mia vita è stato quando venni assunto in banca. Provenivo dal sindacato e vivevo come un peso il fatto di essere soggetto a un’autorità rigidamente gerarchica nello svolgimento del mio lavoro. Mentre nel sindacato ero abituato a gestire autonomamente la mia vita professionale. Soprattutto, ero abituato a realizzare ciò che mi proponevo perché ero responsabile delle mie scelte e delle mie azioni. Poi presi coscienza di cosa avevo realmente bisogno per realizzarmi. Che non era fare carriera, ma soddisfare una esigenza esistenziale di giustizia. Ecco, questi sono i motivi principali per cui alla fine scelsi di tornare al sindacato.

 

Ci sembra di capire che l’incontro con il sindacato è stato molto precoce e ha accompagnato tutto il suo percorso lavorativo.

 

Il mio primo incontro col sindacato avvenne nel ’69, durante l’Autunno caldo. Ero uno studente del liceo Virgilio di Roma quando ci fu la prima grande manifestazione unitaria dei metalmeccanici. C’era un lungo corteo che passava sul Lungotevere per andare a Piazza del Popolo e noi studenti liceali ci affacciammo tutti fuori dalle finestre per vedere quella folla enorme. Poi scendemmo giù e ci unimmo al corteo degli operai.

 

Dopo questo primo contatto da studente cosa accadde?

 

Accadde che ebbi l’occasione di fare uno stage all’Olivetti ad Ivrea e per un certo periodo lavorai come operaio.  All’Olivetti facevano le macchine calcolatrici meccaniche e imparai a costruire il carrello moltiplicatore per fare appunto la moltiplicazione. Un giorno il capo del personale mi disse che non sapevo perché ero lì a fare l’operaio, ma che prima o poi l’avrei capito e mi sarebbe servito. E in effetti fu così quando incontrai Giorgio Benvenuto, che allora era segretario generale dei metalmeccanici della UIL. Fu l’episodio che determinò una svolta perché ebbi finalmente l’occasione di impegnarmi anima e corpo per il sindacato.

 

Possiamo dire che lavorare nel sindacato fa sentire le persone realizzate e non semplici rotelline di un ingranaggio?

 

Magari oggi le cose sono un po’ cambiate. Ma il sindacato, per come l’ho vissuto negli anni della mia gioventù, era fatto di rapporti di amicizia, di solidarietà, di condivisione. E tutto ciò malgrado le divergenze e gli scontri politici. Penso soprattutto all’esperienza unitaria dei metalmeccanici, dove ognuno di noi si sentiva parte della storia, si sentiva protagonista del cambiamento della società.

 

Qual è una delle qualità principali di un sindacalista?

 

Comprendere il potere della parola. Ricordo una delle mie prime esperienze sindacali a Pordenone, poco dopo il colpo di Stato in Cile del 1973. Organizzammo un concerto di un gruppo latino-americano dentro la fabbrica, ma la sicurezza non voleva far entrare gli strumenti musicali perché ritenuti oggetti estranei. Allora riunii il personale e mi lanciai in un discorso accorato sul Cile, sul colpo di Stato, sulla libertà. E a un certo punto dissi: hanno sequestrato gli strumenti musicali e adesso noi ce li andiamo a riprendere. Tutti si alzarono in piedi, e come un solo uomo 3mila lavoratrici e lavoratori si avviarono verso la palazzina degli uffici dove c’era il capo del personale. Il quale vista la situazione ci restituì immediatamente gli strumenti musicali e il concerto si tenne come da programma.

 

Il potere della parola è rimasto ma oggi il modo di fare comunicazione è completamente diverso da quello degli anni ’70.

 

Sì, è così. E aggiungo che è cambiato l’approccio con la realtà. Oggi la realtà viene filtrata dai social media o, ancora prima, dalla televisione. Con i social media ci si illude di interagire con la realtà mettendo dei like, ma in questo modo gran parte dell’informazione finisce per risultare distorta o incompleta. Con le nuove forme di comunicazione è lo spettacolo a prendere il sopravvento. Io invece credo che l’azione sindacale debba conservare un rapporto diretto con le persone, perché solo il rapporto faccia a faccia ti fa conoscere quali sono le reali condizioni dei tuoi interlocutori.

 

L’impiegato produce documenti, un operaio manufatti, un tecnico produce tecnologia. Cosa produce un sindacalista?

 

Produce giustizia sociale. Sul piano etimologico la parola sindacato unisce due concetti: quello di insieme e quello di giustizia. Dunque sindacato significa fare giustizia insieme. Ecco, io credo che il senso della giustizia sia connaturato agli esseri umani. E il sindacato è uno degli strumenti con cui ci si può battere per ottenere giustizia in forma collettiva. Il modello del sindacato confederale, per come lo vedo io, è quello che meglio si avvicina all’idea di contribuire in forma collettiva a una società più giusta.

 

L’attività del sindacalista è molto stressante e in genere non gode di grandi remunerazioni. Perché lei ha fatto questa scelta?

 

Perché penso che contino di più l’equilibrio e la soddisfazione personale, piuttosto che la remunerazione. Certo, se avessi proseguito nella carriera di dirigente di banca avrei avuto molti più vantaggi economici. Ma, oltre a essere un’attività molto stressante, non richiede passione, almeno non per me. Anche fare il sindacalista è stressante. Però c’è la passione, c’è il desiderio di giustizia, di fare politica, di impegnarsi per vedere dei risultati concreti a vantaggio dei lavoratori.

 

Consiglierebbe oggi a un giovane di fare il sindacalista?

 

Triste sarebbe quella società dove non ci fosse più spazio per l’agire sindacale e dove non ci fossero più giovani che ritengono necessario battersi per la giustizia sociale. Forse occorrerebbe fare maggiori considerazioni sul rapporto che oggi i giovani hanno con il lavoro. Ovviamente cercano i soldi, cercano carriera. Ma cercano anche di fare qualcosa che li soddisfi. E l’impegno sindacale può essere un’opportunità. Però ai giovani questa opportunità va spiegata affinché possano comprenderla e viverla appieno. Vede, in un certo senso il sindacato è la più grande organizzazione di volontariato esistente in Italia. La sua grande forza sono le migliaia di delegati che non ci guadagnano nulla, anzi ci rimettono. Sono dei volontari, appunto. Ecco: noi dobbiamo valorizzare questa ricchezza, fondare di più il sindacato sulla rappresentanza dei propri delegati, dei propri eletti nelle RSU che svolgono la propria attività in tutti i luoghi di lavoro.

 

A cura dell’Ufficio comunicazione UIL Pubblica Amministrazione

 

Roma, 4 gennaio 2024

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