di Guido Melis
L’Archivio Centrale dello Stato è uno dei grandi istituti culturali italiani. Ha sede a Roma, nel grande quartiere dell’Eur che il fascismo fondò – così dicevano loro – a sua imperitura memoria per celebrare il secolo della “rivoluzione” delle camicie nere. Chiude con la sua grande mole marmorea che si erge in lontananza l’arteria di Viale Europa. Un corpo centrale di due piani, esteso parecchie centinaia di metri quadrati, due braccia che si protraggono lateralmente, sopra due interminabili porticati. Sembra uno di quegli edifici minacciosi che popolano certi quadri del grande pittore De Chirico: piazze deserte, architetture opprimenti, le persone dipinte piccole piccole e come smarrite in quell’orizzonte ostile. A chi viene in auto o a chi scende nella stazione della metropolitana di Eur-Fermi e si affaccia a piedi tra i grandi palazzi della zona, l’edificio fa un’impressione di solidità che raramente si prova altrove: chi lo ideò, negli anni Trenta, voleva appunto rappresentarvi lo Stato di allora, in tutta la sua potenza e totalitaria solitudine.
Il palazzo fu costruito per celebrare nel 1942 il ventennale del fascismo, ma non ebbe fortuna perché nel ’42 era già cominciata la guerra sciagurata di Mussolini e di Hitler. Doveva ospitare – l’edificio – la seconda edizione della Mostra della Rivoluzione fascista, ma la Mostra fu annullata: c’era ben altro da pensare. Poi il regime crollò rovinosamente, gli Alleati nel 1944 entrarono a Roma, la guerra nel 1945 finalmente finì e la Repubblica democratica e antifascista prese il posto della dittatura.
L’edificio rimase disabitato. Adibito nel dopoguerra a sede dell’Archivio nazionale allora costituito, divenne subito il centro pulsante delle ricerche sull’Italia contemporanea. Qui sono depositati e messi in ordine per essere consultati tutti i documenti prodotti dall’amministrazione centrale dello Stato (ministeri e grandi enti nazionali) dal 1861 ad oggi. Qui vennero in pellegrinaggio i grandi storici delle generazioni passate, come Renzo De Felice, Ernesto Ragionieri, Alberto Caracciolo, Carlo Ghisalberti, Pietro Scoppola, Giorgio Candeloro, per scrivere, basandosi sui documenti, le loro grandi storie d’Italia. Qui lavorò operosamente una prima generazione di grandi archivisti, funzionari provetti che alla capacità di individuare e classificare le fonti univano una raffinata cultura. Uno per tutti: Claudio Pavone, intellettuale finissimo, autore di studi fondamentali. Una serie di sovrintendenti (così si chiamano i direttori dell’Archivio) ebbe cura uno dopo l’altro del servizio e costantemente lo migliorarono. Uno di essi – che fu mio amico personale – l’indimenticabile Mario Serio, rifece dall’interno tutto il palazzo, dotandolo di comode sale di lettura, laboratori, luoghi di riunione e corredandolo di opere d’arte di proprietà dello Stato. Un gioiello.
Oggi, negli immensi depositi sotterranei (un labirinto di stretti corridoi tappezzato da grandi faldoni recanti sul dorso le diciture degli “enti produttori”, l’anno, la serie archivistica) è stata costituita una mostra permanente della storia dell’Italia unita. Si intitola “Lo scrigno delle memoria”. L’ha ideata e voluta l’attuale sovrintendente, Andrea De Pasquale, che ha diretto un valido gruppo di archivisti suoi collaboratori. Una commissione di esperti e storici della quale io stesso ho avuto l’onore d’essere il coordinatore l’ha perfezionata concorrendo ad arricchirla con idee e suggerimenti. Adesso è aperta a chi voglia visitarla, basta telefonare per appuntamento.
La mostra è collocata nel cuore dei depositi e raccoglie con ordine le collezioni di documenti che più illustrano la memoria delle vicende cruciali della storia dell’Italia unita. Si apre con i grandi ritratti di Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi e con le carte di quel periodo eroico che fu il Risorgimento (c’è – ad esempio – il famoso telegramma vergato a mano da Garibaldi: “obbedisco”), prosegue con la documentazione della lenta costruzione del Paese (statistiche, progetti di reti ferroviarie, carte delle bonifiche idrauliche, grandi opere per congiungere i territori); espone le carte dei primi prefetti del Regno, e poi quelle delle opere del Genio civile o quelle relative alla prima costruzione di una politica sanitaria nazionale (i vaccini obbligatori di Crispi).
Quindi passa ad illustrare i progressi dell’età di Giolitti, e insieme le prime lotte dei lavoratori e la nascita del Partito socialista. Ci sono le città che crescono, ma anche la miseria dei “cafoni” meridionali denunciata da Salvemini e dai grandi meridionalisti. La Grande Guerra è rappresentata in filze interminabili di documenti, ma si espone anche una divisa in grigioverde di un povero soldato qualunque, e le mappe dei militari insieme alle statistiche dei tanti caduti. Si passa poi al tumultuoso primo dopoguerra, con lo squadrismo fascista e i suoi minacciosi gagliardetti, le vittime, gli scontri di piazza.
Nel 1921 a Livorno il partito socialista si spacca e nasce il Partito comunista d’Italia: le foto e le carte lo documentano. Poco più avanti le foto del Casellario politico centrale, la grande banca-dati del sovversivismo ideata da Crispi contro gli anarchici ma poi estesa oltremodo da Mussolini contro tutto l’antifascismo, introduce gli anni della dittatura: l’assassinio di Matteotti, le leggi eccezionali, le persecuzioni. Accanto campeggia il duce a torso nudo che trebbia il grano o la bonifica dell’Agro Pontino o le opere edilizie del regime. Sulle pareti scorrono i filmati dell’Istituto Luce.
E poi la seconda guerra mondiale, e poi ancora il 25 luglio (con i documenti autografi della seduta fatale), e il Re, Badoglio, l’arresto del duce, la sua liberazione e l’epilogo tragico della Repubblica sociale, coi tedeschi a farla da padroni, la lotta partigiana sulle montagne, il Regno del Sud sotto protezione alleata.
Interessantissima la documentazione, meno nota, sul dopoguerra: la Costituente, le prime donne in Parlamento, le carte sulla ricostruzione, l’Ina-casa, le lotte sociali di quegli anni; e poi il centro-sinistra, l’Autostrada del Sole, le grandi opere dell’Iri e dell’Eni di Enrico Mattei, la Cassa per il Mezzogiorno, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la scuola media unificata. E ancora il biennio 1968-69 delle lotte studentesche ed operaie, lo Statuto dei lavoratori, le riforme della sanità, il welfare italiano.
Accanto al filo rosso “politico”, però, ci sono la società che cambia (l’avanzata delle donne), il costume, l’arte, il cinema (i grandi film del neorealismo che raccontarono il dopoguerra, Fellini, Visconti); e poi lo sport (le Olimpiadi del 1960, i mondiali di calcio), il trionfo nel mondo della nostra moda e del design italiano (la 600 Fiat disegnata da Pininfarina, la caffettiera Bialetti), sino alle ricerche scientifiche, e ai successi nel campo della tecnologia (l’avventura straordinaria della Olivetti, che inventò il computer). Il terrorismo rosso e nero (le stragi mai del tutto decifrate) costituiscono un capitolo doloroso, culminato nell’assassinio di Aldo Moro. Pagine tristi si alternano con altre esaltanti, a raccontare una storia che ci riguarda tutti: “la storia siamo noi”, dicevano i versi di un cantautore famoso.
A cosa serve “Lo scrigno della memoria”? Lo dice già lo straordinario successo di questi primi mesi con intere scolaresche che vengono a visitare la mostra. Sinora l’Archivio ha soprattutto parlato ai tantissimi ricercatori e studiosi che da tutta Italia hanno affollato la sua sala studio. Ottima cosa, funzione importantissima. Ora però si vuole fare di più: l’Archivio vuole essere il centro – uno dei centri – della memoria di un Paese e di un popolo.
Un grande quadro di Emilio Isgrò, dipinto proprio per esservi collocato, campeggia nella mostra. Si intitola “L’Italia dell’articolo 5”. Consta di una scrittura, un documento, che appare tutto cancellato: sono le leggi razziali, sono le parole inique e tremende della nostra vergogna nazionale che vogliamo non dimenticare ma espungere per sempre dalla nostra storia presente e futura. La mostra valorizza invece l’altra memoria, quella di un Paese che in oltre 160 anni ha compiuto uno straordinario percorso di progresso economico e civile, il Paese della Costituzione e dei diritti sociali e individuali. Per questo vale la pena di visitare la mostra. Lì all’Eur, in quell’edificio d’altri tempi costruito per tutt’altri scopi, c’è l’Italia che è stata ma anche e soprattutto quella che sarà.
Guido Melis