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03.07.2014 – Antonio Foccillo sulla Riforma della P.A.

Pubblichiamo le “Valutazioni UIL sulla presunta Riforma della PA”

Lo studio è a cura dell’Ufficio Pubblico Impiego della UIL    

La riforma della Pubblica Amministrazione del governo Renzi è un tema che riguarda tutti, nessuno escluso, perché una efficiente macchina pubblica è un valore aggiunto nell’economia di un paese e, soprattutto, è garante della distribuzione della ricchezza in momenti di crisi economica. La macchina amministrativa dello Stato è molto complessa e variegata e proprio per questo e per rispetto a chi, nonostante le tante vessazioni ed offese che vengono fatte loro, nella Pubblica amministrazione continua a lavorare e produrre, avrebbe avuto la necessità da parte dei governanti di conoscerla prima di tutto, di studiarla a fondo per evitare le generalizzazioni, e poi affrontarla con reale cognizione di causa. Oggi basta analizzare sia i poteri derivati dal Titolo V della Costituzione e sia le funzioni per capire com’è cambiata l’amministrazione pubblica e quante diversità vi sono, come pure riconoscere che ci sono fior fiori di professionisti che si dedicano a tante nuove incombenze. Certo vi sono anche condizioni difficili in cui versa la macchina amministrativa per la mancanza di strumenti, la pochezza di stimoli professionali (ulteriormente aggravata dal blocco del salario individuale) la fatiscenza di sedi e della tecnologia usata, l’inadeguatezza degli stipendi e la carenza di organico. Proprio per questo per la Uil la riforma della Pubblica amministrazione è una sfida politica che solo con l’adeguata conoscenza e con i dovuti investimenti può essere affrontata, portando a sintesi il più ampio confronto con i lavoratori pubblici e con le loro rappresentanze. Purtroppo non è stata questa l’idea che ha mosso il governo. Infatti, con il decreto il Governo non si è premurato affatto di liberare risorse per la formazione e per l’aggiornamento dei dipendenti pubblici, fattori essenziali in un sistema, quale quello delle amministrazioni pubbliche, ad alta instabilità normativa. Permane quella presunzione di poter validamente risolvere la crisi della P.A. esclusivamente con ulteriori strumenti normativi a dispetto di consultazioni, confronti e contrattazioni. L’instabilità normativa che ne è derivata fino ad oggi ha peggiorato la situazione ed ha evidenziato una tecnica redazionale tutt’altro che soddisfacente e un’incapacità di prefigurarsi la portata pratica dei singoli interventi, con sottovalutazione degli effetti perniciosi delle continue “correzioni” al sistema. Non a caso, anche, il decreto legge predisposto dal Ministro Madia è stato a lungo all’esame dei tecnici del Quirinale in quanto pare che abbiano trovato più di un’incongruenza.

 

Quello che risulta evidente, anche in questa occasione, quando la normativa è riduttiva di qualche prerogativa dei vertici di qualsiasi genere si muovono le lobbies, coinvolgendo le istituzioni, e la cambiano, se, invece, si interviene in senso penalizzante nei confronti del personale, nessuno è disponibile a protestare, se non il sindacato.

Il ministro Madia ha comunque sostenuto che i sindacati hanno potuto partecipare al procedimento della stesura dei testi del disegno di legge delega sulla Pubblica Amministrazione. Chiedo al Ministro quando, dove e con chi ha avuto un confronto di merito. Non certamente con noi a meno che non si consideri confronto un’audizione che abbiamo avuto con il ministro senza nessuna discussione di merito.

Le nostre valutazioni negative sui provvedimenti le abbiamo potute esprimere solo con dichiarazioni stampa. Ricordo, inoltre, al Ministro che le Organizzazioni sindacali hanno presentato unitariamente una proposta che non è stata presa in considerazione.

Valutando attentamente il merito, esso ci porta a dire che la tanto sbandierata riforma della P.A. del Governo Renzi è stata varata, ma non è certamente in grado di valorizzare la pubblica amministrazione, né chi ci lavora. Come si fa a considerare “riforma” una proposta che, ancora una volta, si accanisce con i lavoratori pubblici, senza intervenire nelle vere dinamiche che la rendono in alcuni casi inefficiente.

 

1) Abbiamo condiviso la volontà del governo di immettere giovani nella P.A., ma i numeri che si fanno con le misure proposte sono irreali. Infatti, si sostiene che vi saranno 15.000 posti di lavoro nuovi per effetto della norma sui trattenimenti in servizio. Vogliamo ricordare che i trattenimenti in servizio, da almeno 2/3 anni non sono più avvenuti, se non in casi eccezionali. Già da tempo, infatti, per trattenere in servizio nei due anni successivi all’età del pensionamento un dipendente che abbia superato il limite di età (oggi è di 66 anni e 4 mesi) occorre utilizzare le risorse del turn-over, che com’è noto sono destinate alle assunzioni. Turn-over che prevede la copertura solo del 20% degli uscenti: quindi per ogni 5 dipendenti che vanno in pensione si può assumere una sola persona. Le Amministrazioni Pubbliche ormai non trattengono ultrasessantenni in servizio, tranne rarissime eccezioni e tutte riguardanti i vertici della P.A. In sostanza quindi dalla abrogazione del trattenimento in servizio non si producono 15.000 posti.

Quindi, se si vuole realmente assumere 15.000 giovani essendo il turn-over fissato nel 40% delle uscite bisogna prevedere 38.000 pensionamenti. Tuttavia si continuerà a perdere il 60% degli attuali organici, ovvero altri 23.000 posti di lavoro, che si aggiungono ai 350.000 già persi negli scorsi anni: altro che staffetta generazionale! Dato che si pensa di fare entrare 15000 giovani a costo zero qualcuno deve spiegare come, visto anche che con la prevista mobilità si andranno a colmare tutti i vuoti di organico. La mobilità dovrebbe avvenire sulla base delle tabelle di equiparazione che dovrebbero garantire i lavoratori trasferiti, ma chi dovrebbero stabilire queste tabelle?

 

2) La mobilità obbligatoriagià esisteva e con le sue procedure rimaneuna misura per risolvere crisi occupazionali dopo aver esplorato tutte le possibilità di ricollocazione del personale in mobilità. (articoli 34 e 34 bis del decreto 165/2001; art. 2 comma 11, lettera d) DL 95/2012 come convertito nella legge 135/2012,  che opera al verificarsi delle condizioni previste dall’art. 2 del DL 95/2012. Non è da tralasciare la mobilità guidataper la gestione delle situazioni di eccedenze e sovrannumero conseguenti a provvedimenti di rideterminazione delle dotazioni organiche delle amministrazioni centrali e locali a seguito dell’applicazione delle norme sulla spending review.

La cosiddetta mobilità d’ufficio, che agisce entro i confini della Provincia è già in vigore precedentemente alle norme del governo Renzi.. Con una norma entrata in vigore a gennaio di quest’anno, il Governo ha stabilito che chi si trasferisce da una Amministrazione ad un’altra e anche all’interno della stessa Amministrazione non può più vantare i cosiddetti “diritti acquisiti”. Quindi, se il trasferimento comporta una diminuzione dello stipendio. Addirittura alcune Amministrazioni arrivano a sostenere (a nostro avviso sbagliando) che la norma abbia addirittura effetti retroattivi e che si debba pertanto procedere a vere e proprie decurtazioni, in alcuni casi molto pesanti, dell’ordine del 30%, delle retribuzioni. La tabella di equiparazione non serve peraltro a nulla, perché gli stipendi fondamentali sono pressappoco tutti uguali nella P.A.: la vera differenza retributiva è composta dal salario accessorio e per effetto di una norma già varata, se si cambia lavoro o se si cambia Amministrazione già oggi, si perde ciò che era in godimento e si percepisce quanto collegato alla nuova attività nella nuova Amministrazione. L’attuale norma non fa che confermare tutto ciò spacciandolo per un “enorme” cambiamento.   

 

3) E’stata introdotta una norma che consente di mandare a casa i lavoratori pubblici che raggiungono i 42 anni e 4 mesi di contributi. Ma questa norma era stata già introdotta da Tremonti e Brunetta e consentiva di interrompere il rapporto di lavoro a chi aveva raggiunto i 40 anni di contributi. La norma Tremonti – Brunetta è stata applicata in moltissime Amministrazioni (in particolare nelle Università) ed è servita in molti casi semplicemente a recuperare i tagli del Governo ai bilanci. Portarla quindi da 40 anni a 42 anni e 4 mesi è solo un aggiornamento della Tremonti-Brunetta.

 

4) Viene definitivamente abrogatol’istituto del trattenimento in servizio previsto dall’art. 16 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 5034 riconosceva ai dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici ed ai professori universitari un diritto potestativo a permanere in servizio per il periodo indicato: “è in facoltà dei dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici di permanere in servizio (…) per un periodo massimo di un biennio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo”,

La norma è stata profondamente modificata dal comma 7 dell’articolo 72 del d.l. 112 del 2008 che comporta un significativo mutamento dell’assetto degli interessi in rilievo in tale delicata materia. Al pubblico dipendente – dopo tali modifiche – non è più riconosciuto un diritto soggettivo alla permanenza in servizio, prevedendo soltanto che l’istanza presentata vada valutata discrezionalmente dall’Amministrazione; la quale ha facoltà di accoglierla solo in concreta presenza degli specifici presupposti individuati dalla disposizione, i primi dei quali sono legati ai profili organizzativi generali dell’amministrazione medesima e poi alla situazione specifica del richiedente (“in relazione alla particolare esperienza professionale acquisita dal richiedente in determinati o specifici ambiti ed in funzione dell’efficiente andamento dei servizi”).

L”istituto del trattenimento in servizio ha quindi di fatto assunto un carattere di eccezionalità in considerazione delle generali esigenze di contenimento della spesa pubblica che hanno ispirato e informato l’intero impianto normativo. Ne consegue che l’ipotesi ordinaria è quella della mancata attivazione dell’istituto del trattenimento, mentre l’ipotesi del trattenimento ha carattere di eccezionalità, con la necessità di esplicitare in modo adeguato le relative ragioni giustificatrici, conferendo rilievo preminente alle esigenze in senso lato dell’amministrazione.

L’eccezionalità del trattenimento in servizio deve essere adeguatamente giustificata da oggettivi e concreti fatti organizzativi, tali da imporre il ricorso ad un tale particolare strumento derogando alle esigenze di risparmio perseguite dalla legge. Quando invece l’Amministrazione rigetta l’istanza con effetti che incideranno non poco sul futuro delle persone e delle famiglie visto che si sta pensando ad una ulteriore riduzione delle dotazioni organiche (85 mila

 

5) Sulla licenziabilità dei dirigenti c’è poi l’ennesima operazione d’immagine: ci sono già una montagna di norme, tra leggi e contratti, che sanciscono la licenziabilità dei pubblici dipendenti e dei dirigenti in particolare! Già oggi il dirigente senza incarico è licenziabile, già oggi la retribuzione di risultato è data in base alla valutazione secondo i criteri della performance della Brunetta. Infine, se il contratto per i dirigenti viene fatto sulla base di un concorso pubblico, che come la Costituzione prevede, deve garantire l’imparzialità e l’interesse dei cittadini, si può, poi, licenziare e se il salario accessorio è garantito dall’andamento del Pil, vorremmo saper di fronte a tanta incertezza chi parteciperà ad un eventuale concorso pubblico. 

La licenziabilità per mancanza di incarico con le cooptazioni senza concorso di dirigenti non di ruolo. Per la cooptazione dei dirigenti “di fiducia”, secondo le bozze in circolazione, non sarà necessario verificare se negli organici di ruolo siano presenti dirigenti dotati dell’esperienza e qualificazione professionale necessaria. Dunque, un ministro o un sindaco potrebbe comunque decidere di assumere un dirigente dall’esterno, nonostante nell’organico sia presente un dirigente di ruolo dotato di competenze e professionalità per svolgere un certo determinato incarico. Così, paradossalmente, l’assunzione del dirigente esterno servirà per lasciare quello di ruolo senza incarico e poterlo condurre magari al licenziamento. L’altro paradosso è che per la dirigenza di ruolo si prevede un limite temporale agli incarichi di 3 anni, mentre per quella fiduciaria la durata potrà coincidere col mandato politico.

Le conseguenze di una tale impostazione della pubblica amministrazione non sono certo quelle sbandierate della maggiore efficienza, si crea, invece, un apparato controllato direttamente dalla politica, e che con la politica si identifichi nel modo più diretto e stretto possibile.

E’ certo a questo punto che verrà meno la caratteristica fondamentale della pubblica amministrazione e cioè quel ruolo di imparzialità ed i principi di buona amministrazione.

 

6) la norma sulla assegnazione di nuove mansioni è la più contraddittoria. Viene propagandata come un favore al dipendente, ma contrasta due volte con il codice civile, perché non solo penalizza il lavoratore “obbligandolo” per salvarsi a mansioni inferiori, ma non si prevede la possibilità di mansioni superiori con il relativo riconoscimento non solo giuridico ma anche economico, come avviene per i lavoratori privati.

 

7) Venendo alla dalla modifica dell’articolo 90 del d.lgs 267/2000, al cui comma 2 si aggiunge il seguente ultimo periodo: “in ragione della temporaneità e del carattere fiduciario del rapporto di lavoro si prescinde nell’attribuzione degli incarichi dal possesso di specifici titoli di studio o professionali per l’accesso ai corrispondenti qualifiche ed aree di riferimento”. Ciò significa che i politici potranno nominare nel proprio staff chi vogliono con l’inquadramento professionale che ritengono opportuno, hanno quindi la facoltà di nominare dirigenti persone prive del requisito di accesso dall’esterno per concorso, cioè la laurea,.Altro che qualificazione professionale e valorizzazione delle competenze.

Si tratta di una norma di un’iniquità senza pari, poiché stabilisce che l’amico del politico, in barba alla Costituzione e senza sottoporsi ad alcuna selezione concorsuale e prescindendo da titoli di studio e professionali, può ricoprire l’incarico dirigenziale sulla base solo di un rapporto di fedeltà.

E’ un altro tipo di meritocrazia che trova riverberi nel ridisegno della dirigenza.

Ricordiamo che nella realtà già è avvenuto che un politico abbia attribuito a persone del proprio staff la qualifica di funzionari pur non essendo laureati, ed è stata oggetto di una sentenza della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale della Toscana, 4 agosto 2011, n. 282, la quale ha considerato quanto segue: “Ciò, naturalmente, non comporta affatto che le assunzioni dall’esterno ex art. 90 del TUEL debbano essere lasciate al mero arbitrio degli amministratori, senza alcun vincolo di corrispondenzatra il trattamento economico di categoria D normativamente previsto e i requisiti minimi, culturali e professionali, atti a giustificare la corresponsione di quel trattamentoanche in assenza della laurea. Al riguardo effetto tranciante hanno le considerazioni della Corte Costituzionale di cui alla sentenza n.252 del 30 luglio 2009, per le quali: “Il riconoscimento agli amministratori pubblici…… di un certo grado di autonomia nella scelta dei propri collaboratori esterni (v. sentenze n. 187 del 1990 e n. 1130 del 1988), non esime …… dal rispetto del canone di ragionevolezza e di quello del buon andamento della pubblica amministrazione”. Ciò al fine di evitare che l’assunzione (sia pure a tempo determinato) di personale sfornito dei requisiti normalmente previsti per lo svolgimento di funzioni che è destinato ad esplicare determini l’inserimento nell’organizzazione pubblica di soggetti che non offrono le necessarie garanzie di professionalità e competenza(Corte Cost. sentenza n. 27 del 2008)”.

Essa risponde perfettamente alla logica dell’amministrazione pubblica intesa come profanazione diretta della volontà dell’organo politico, che deve essere lasciato libero di esercitare l’arbitrio in merito a chi assumere e a quali dirigenti affidare la gestione, possibilmente scegliendoli anche in questo caso arbitrariamente.

 

8) L’altro elemento simbolico della riforma della pubblica amministrazione è rappresentato dall’impianto della riforma della dirigenza, un nuovo tipo di spoil system che prevede la possibilità indiscriminata per il politico di costruire un apparato di dirigenti di partito, all’interno dell’amministrazione.

Il passaggio fondamentale della riforma della dirigenza finalizzata al più politicizzato degli spoil system sta nel licenziamento dei dirigenti che restino privi di incarico per un certo periodo di tempo.

Tutto si giocherà, dunque, sull’attribuzione ai dirigenti degli incarichi a tempo determinato e la dirigenza da qualifica contrattuale, diventa una sorta di “aspettativa legittima” all’assegnazione dell’incarico dirigenziale. Di fatto, quindi, il reclutamento pubblico diventa qualcosa di simile all’iscrizione ad un albo poiché i dirigenti entrati nei “ruoli” di fatto non eserciteranno le funzioni dirigenziali, se non riceveranno un incarico. Facendo poi conseguire alla mancanza prolungata di incarichi la conseguenza del licenziamento, si dà alla politica un potere enorme sulla dirigenza, determinandone una chiarissima precarizzazione ed una sottoposizione all’arbitrarietà delle scelte, in totale contrasto con la posizione di autonomia imposta dagli articoli 97 e 98 della Costituzione e con la giurisprudenza costituzionale maturata a partire dalla sentenza della Consulta 103/2007.

 

9) Parliamo della norma che taglia tutte le libertà sindacali del 50%, con effetto dal 1° settembre.

La norma è stata scritta adducendo due motivazioni:

a) i cittadini ce lo chiedono. Qualcuno dovrebbe spiegare, se le 32.000 mail di cui più della metà vengono da iscritti al sindacato che hanno chiesto i rinnovi dei contratti, tra l’altro rappresentano circa l’un per cento dei lavoratori e lo 0,00001 dei cittadini, quale grado di attendibilità hanno della vera volontà della cittadinanza. Sembrano i sondaggi che fa Sky, dove i pochi che rispondono, come sostiene l’emittente, sono solo un campione e non hanno il carattere di rappresentare una reale volontà. La brutta consuetudine invalsa di utilizzare mail e blog, che non prevedono verifiche, consente di affermare qualsiasi cosa che sia funzionale al vertice di turno;

b) la politica ha ridotto il finanziamento pubblico, quindi anche al sindacato si chiede un sacrificio. vorremmo ricordare al governo che il finanziamento pubblico sparirà, forse, nel 2018, mentre per il sindacato invece si procede celermente entro l’anno.

La libertà sindacale è un diritto umano universalmente riconosciuto e tutelato, e un valore fondamentale consacrato dalla Costituzione dell’ILO dal 1919.

La libertà sindacale è il diritto, sia per i datori di lavoro che per i lavoratori, di costituire liberamente associazioni sindacali e di aderirvi senza timore di rappresaglia o interferenza. Include il diritto di stabilire e di aderire a federazioni, confederazioni e a organizzazioni internazionali. Connesso alla libertà sindacale, il diritto alla negoziazione collettiva, finora di fatto abrogato, permette ai lavoratori di negoziare liberamente le proprie condizioni di lavoro con i datori di lavoro, mentre si sta sviluppando una imposizione delle condizioni di lavoro per legge. Tali diritti hanno carattere universale e si applicano a tutti i lavoratori e i datori di lavoro, nell’economia informale. La libertà sindacale garantisce ai lavoratori e ai datori di lavoro la possibilità di difendere non solo i propri interessi economici, ma anche libertà civili come il diritto alla vita, alla sicurezza, alla libertà personale e collettiva. Assicura una protezione contro gli atti di discriminazione e le molestie. La libertà sindacale, in quanto parte integrante della democrazia e dello sviluppo, è allo stesso modo necessaria alla realizzazione degli altri principi e dei diritti fondamentali sul lavoro. Tuttavia, l’applicazione di tali diritti e principi – libertà sindacale, diritto di organizzazione, su cui incide l’ulteriore taglio dei distacchi e di negoziazione collettiva – sono  funzionali alla creazione di sempre maggiori difficoltà all’attività sindacale per rendere sempre più difficile garantire la giustizia sociale in una realtà in via di espansione e facilitare invece un nuovo tipo di sfruttamento del lavoro.

Inoltre, i distacchi derivano da costi contrattuali e le aspettative e i permessi sindacali sono frutto dello Statuto dei lavoratori che valgono per il pubblico e per il privato: nel caso dei permessi se ridotti al 50% saranno abbondantemente sotto la quota del privato, con una grave sperequazione fra i lavoratori. Vogliamo ricordare che anche nel privato sono pagati dal datore di lavoro per permettere al lavoratore di essere adeguatamente rappresentato e al sindacato di poter svolgere il proprio ruolo di rappresentante   

 

 

In conclusione la Pubblica Amministrazione non può essere vista solo come un soggetto che spende. I servizi pubblici svolgono una funzione essenziale nei confronti della collettività. Ciò, naturalmente coinvolge il cittadino che è il naturale destinatario delle strutture pubbliche per beneficiare di quei servizi essenziali che lo Stato è impegnato ad erogare. Ebbene, non si tratta allora di istituire come la riforma fa, delle regole punitive, ma di rilanciare la pubblica amministrazione nel suo essenziale valore della solidarietà. Una solidarietà che si esprime sostanzialmente nella difesa dei soggetti più deboli, di quelli che meno dispongono di un potere negoziale in proprio. Pensiamo ai pensionati, ai malati, agli studenti, ai lavoratori meno professionalizzati, ai disoccupati, tutte categorie sociali che hanno più necessità di una amministrazione che li salvaguardi, soprattutto in momenti come questi di grande crisi economica. Ma essa è essenziale anche al sistema produttivo, se le sue funzioni sono semplici ed in grado di sostenere lo sviluppo necessario. Il ruolo dell’intervento pubblico, pertanto, resta necessario e auspicabile, perché finalizzato alla funzionalità dell’intero sistema e quindi mirato al peculiare scopo di garanzia finale dell’interesse pubblico. Anche noi abbiamo sostenuto, in più di un’occasione che bisogna porsi il problema di come rendere i servizi pubblici produttivi e di come renderli vicini alle esigenze della gente, quindi modificando gli apparati, la burocrazia, l’organizzazione del lavoro, la struttura e, quindi, valorizzare anche la professionalità del lavoratore del pubblico impiego e sulla base di questo, si può avere il consenso anche dell’altra parte della società. Per la Uil definire la natura di una reale strategia riformista significa innanzitutto determinare un nuovo spazio ideologico rinnovato, tale da diventare motivo di aggregazione, di progettualità e di intenzioni, facendo dello Stato dei suoi servizi un soggetto sociale referente di una costellazioni di azioni. In questo senso il rapporto fra lo Stato e il cittadino costituisce un elemento essenziale della dinamica della soddisfazione dei bisogni e di pari opportunità fra i cittadini. Mi riferisco al fatto che un motivo di perequazione sociale discende dall’espressione che lo Stato da alle proprie scelte, quale responsabile di politiche della salute sociale. Rispetto a ciò il nostro intento strategico dovrà essere quello di continuare ad impegnarci per una grande riforma dello Stato Sociale, tale da modificare strutturalmente, e non solo congiunturalmente, i principi secondo cui è organizzata la politica del Governo nelle assistenze e nelle tutele offerte al cittadino. Non si tratta, dunque, come fa il decreto del governo Renzi, di rimediare, esclusivamente alle disfunzioni particolari o alle singole ineguaglianze, ma piuttosto di rivendicare una rifondazione complessiva della filosofia dello Stato. Tutto ciò per costruire adeguate ed eque, condizioni di operatività nei confronti delle reali necessità di assistenza e garanzia sociale. Quindi, una reale riforma richiede non solo di riparametrare i valori di bisogno e di aspettativa sociale, ma anche di intervenire nel funzionamento delle stesse strutture di erogazione delle assistenze apportandovi criteri come la modernizzazione, la professionalità, la tempestività e la qualità del servizio offerto. Il vero cuore di un tale progetto non è semplicemente quello di indurre, lo Stato a creare una struttura di servizi migliori e più efficiente. Lo Stato che dobbiamo avere come prospettiva, per una reale riforma, prima di essere il funzionamento dei servizi, degli uffici, del fisco, della scuola, ecc. è il rapporto che esiste tra il cittadino e le proprie condizioni di libertà, di espressione, di crescita che sono prioritariamente le condizioni che lo Stato ai cittadini di realizzarsi in quanto persona. Una vera riforma della pubblica amministrazione avrebbe dovuto affrontare temi rilevanti come la qualificazione dei servizi pubblici; la semplificazione delle procedure; un piano di investimenti per formazione e in nuova tecnologia; innovazione dell’organizzazione per migliorare l’efficacia dei servizi, reperendo i finanziamenti tagliando sprechi sperperi e colpendo il malaffare. Soprattutto una riforma vera non può prescindere dal coinvolgimento di chi ci lavora, valorizzandone la professionalità e riconoscendo i loro diritti, a partire dal rinnovo dei contratti.

Il Sindacato continuerà a sostenere i suoi valori: la solidarietà, la coesione, l’unità del mondo del lavoro, i diritti per i lavoratori e i loro figli, una società più giusta, dove la sanità, l’istruzione e l’intera gamma dei servizi pubblici siano garantiti a tutti e non solo a chi se lo può permettere. Una nostra allocazione esplicitamente riformista non potrà non avere come finalità quella di sostenere una politica che consenta di evolvere in meglio le condizioni del Paese. Ciò significa ricercare costantemente di interagire con il sistema politico, senza rimuovere le nostre responsabilità, affinché il sistema politico stesso recepisca nelle sue scelte anche il riconoscimento del nostro ruolo sociale. In altre parole, la maturazione del sistema politico e dell’operatività del Governo devono avere nell’integrazione negoziale con il sindacato un motivo di maggiore accreditamento sociale. La gestione sociale della politica dei redditi, in quanto espressione della coesione e della solidarietà, in una dinamica di un diverso intervento dello Stato rimane ancora una scelta appropriata, si tratta di ampliare e aggiornare le compatibilità e i riferimenti di contrattazione con il Governo, verso un disegno che integri il reddito con contenuti che migliorino lo stato complessivo di benessere sociale del cittadino. L’occupazione, la scolarità e l’istruzione, il fisco, la sanità e la salute, la professionalità, la tutela dell’ambiente, sono temi che insieme compongono la misura della soddisfazione sociale, e sui quali il nostro ruolo non può non rivendicare una partecipazione alle scelte che ne decidano i livelli di organizzazione e diffusione.

Lo studio è pubblicato sul sito della Confederazione: 

http://www.uil.it/pubblico_impiego/NewsSX.asp?ID_News=3660