- Il dovere di ricordare
Come facciamo ogni anno ormai da molto tempo siamo tornati qui oggi non per adempiere a un rituale, ma per rispondere a un’esigenza profonda che sentiamo rinnovarsi continuamente in noi. Nessuno ci obbliga a farlo. Nulla ci spinge, se non il richiamo insopprimibile che proviene dalle radici fondanti del nostro pensare e del nostro agire, che qui affondano nel terreno fertile della testimonianza. Il bisogno di ritornare alla sorgente del nostro esistere come uomini liberi e come persone, che qui sgorga dai segni lasciati dalla storia. Siamo liberi di pensare e di agire, perché da ottant’anni ci nutriamo dalla linfa di queste radici. Possediamo la dignità di “persone”, perché da ottant’anni beviamo l’acqua di questa sorgente.
Per questo siamo tornati e continueremo a tornare.
Gli eventi tragici di quel “secolo breve” iniziato con l’attentato di Sarajevo e concluso con la fine del nazi-fascismo hanno lasciato una cicatrice profonda nella storia della nostra civiltà. Le ferite inferte alla coscienza dei popoli europei e al concetto stesso di umanità erano talmente gravi, che avrebbero potuto rivelarsi fatali per questa parte di mondo chiamata Europa. La nostra parte di mondo ha rischiato di scomparire non geograficamente, ma eticamente e spiritualmente dall’atlante dell’etica della morale e del diritto, travolta dall’orrore che essa stessa era stata capace di concepire, risucchiata nell’abisso oscuro dell’autodistruzione che essa stessa aveva avuto l’impudenza di sfidare.
Per questo siamo tornati e continueremo a tornare.
Se siamo stati capaci di risalire da quell’abisso; se abbiamo avuto la forza di squarciare le tenebre della ragione in cui ci eravamo immersi; se siamo riusciti a sfuggire al destino di odio e di morte che sembrava apparecchiato per noi, è perché abbiamo ritrovato il coraggio di guardare noi stessi per quello che siamo. Riconoscere la precarietà dei nostri valori. Ammettere la nostra fragilità di fronte alle minacce, alle pressioni, ai condizionamenti che talvolta riescono a distorcere la nostra percezione delle cose.
Questo luogo ci ricorda che siamo esposti continuamente, sia come individui che come società, al pericolo di scivolare in derive politico-culturali pericolose, in grado di scuotere nel profondo il nostro senso di appartenenza a una comunità di eguali. In questo senso, quindi, Auschwitz è un monumento alla nostra debolezza. Una debolezza immanente nella cultura politica occidentale, pure meravigliosa per tanti altri aspetti. Una debolezza che non possiamo negare, perché sarebbe come rinnegare la nostra stessa essenza di cittadini della storia. Le dittature nazifasciste del Novecento, dei quali il regime hitleriano fu il più compiuto, il più spietato e il più tragicamente efficace, hanno costruito il castello del loro potere sull’abisso oscuro del vuoto delle coscienze di tutti coloro che – senza saperlo, senza volerlo e senza sospettarlo – si resero complici passivi delle sue empietà.
Per questo siamo tornati e continueremo a tornare.
Abbiamo bisogno di riempire un vuoto di empatia per i più deboli. Abbiamo bisogno di umanesimo, soprattutto se l’altro da noi è perseguitato, cacciato dalle sue case, deportato, disumanizzato. Questa è l’impronta che ha segnato la parte migliore della nostra civiltà. La parte peggiore la conosciamo forse di più ed è fatta di guerre, stragi, genocidi. Solo dalla memoria del nostro passato possiamo trarre la forza per non ripetere crimini inenarrabili contro l’umanità.
Ricordare le radici dell’orrore che ha attraversato l’Europa, incluso il nostro Paese, e che dalle ceneri di Auschwitz, Birkenau, Treblinka o dagli innumerevoli altri luoghi dell’oblio in cui si specchia l’immagine della nostra inconsapevole responsabilità, si trasforma in un imperativo umanistico di pace, armonia e solidarietà fra i popoli al quale non possiamo più rinunciare.
Ricordare non per coltivare un odio sterile, ma per costruire un futuro in cui l’odio non possa più attecchire nel vuoto delle coscienze.
Ricordare per scegliere, ogni giorno, la vita sulla morte, la compassione sull’indifferenza, la giustizia sull’oppressione.
- L’abisso della violenza
Per tutti noi che abbiamo avuto la fortuna di non viverla direttamente, ma di conoscerla solo attraverso le parole dei pochi sopravvissuti, la Shoah non è stata semplicemente il prodotto di scarto di una guerra, sebbene si sia nutrita della guerra. Non è stata l’effetto collaterale di un conflitto dove l’aggressore nazi-fascista misurava la propria forza e la propria determinazione. La Shoah si è svolta insieme alla guerra, ma indipendentemente da essa. La guerra l’ha avvolta come una cortina fumogena, l’ha offuscata, l’ha confusa con altri eventi, le ha girato intorno e alla fine se n’è impossessata, divorandola.
Nella sua mostruosità sistematica, la Shoah è consistita in un’amministrazione burocratica della morte. la macchina amministrativa, industriale di uno Stato moderno messa al servizio dello sterminio pianificato e scientifico di interi pezzi di popolazione colpevoli solo di esistere. Ebrei, infermi, disabili, minoranze etniche, comunisti, socialisti, persino dissidenti politici di destra: l’uccisione programmata di civili inermi elevata a sistema di governo. Non si trattava di combattere contro un esercito armato, ma di estirpare dalla faccia della terra ogni traccia di uomini, donne e bambini disarmati, ma biologicamente colpevoli di occupare il territorio nel quale erano nati, nel quale avevano sempre vissuto, alla cui prosperità avevano contribuito e in cui possedevano legittimamente da intere generazioni il diritto di cittadinanza. L’obiettivo primario erano i bambini. I bambini, infatti, rappresentavano il futuro delle ‘razze’ che si intendeva cancellare. La loro eliminazione era la garanzia che per loro non ci sarebbe stato un domani in Europa. In modo particolare, per gli ebrei.
La storia dell’umanità è storia di sopraffazioni, di ingiustizie perpetrate da popoli a danno di altri popoli, di accordi non rispettati, di offese mai risarcite, di tradimenti consumati, di miseria morale elevata al rango di potere e, in questo modo, spacciata per strategia di governo. Possiamo purtroppo dire che, con la scoperta delle Americhe e l’avvento del colonialismo, aggressioni, genocidi e deportazioni rappresentano una triste costante nella storia della nostra lenta, faticosa e contradditoria ascesa verso quella che ci illudiamo di conoscere come modernità occidentale. Ma proprio qui, in questo luogo, sentiamo che una spiegazione del genere, una spiegazione di tipo prevalentemente storicistico, non basta. Sentiamo che la vecchia cara teoria dei corsi e ricorsi è insufficiente, inadeguata, fuori contesto.
La caratteristica agghiacciante che distingue la guerra nazifascista è la programmazione dello sterminio di civili, la cancellazione di popoli, nazioni, etnie. Una fredda determinazione accompagnata da una cinica indifferenza morale per le conseguenze che quel progetto folle e insensato stava generando. Non un’improvvisa esplosione di violenza tribale, ma un processo. Non una vendetta sadicamente consumata contro un nemico atavico, ma un progetto di ingegneria sociale proiettato nel futuro. Tutto si è svolto secondo un piano preordinato: prima le parole, poi la propaganda, la discriminazione sociale e legale, gli inganni, i furti e, infine, la ‘soluzione finale’, perpetrata nella forma di una vera e propria industria della morte dove l’efficienza tecnologica serviva a produrre cadaveri su scala industriale. Le camere a gas e i forni crematori sono il simbolo eterno di questa aberrazione: la negazione totale dell’umano, la riduzione della persona a numero, la reificazione dei corpi come macchine da lavoro, sfruttate fino all’ultimo respiro e poi smaltite come rifiuti.
- Le radici del male
Il luogo in cui ci oggi troviamo testimonia, meglio di qualsiasi indagine storiografica, che il progetto nazista non fu solo un piano di sterminio fisico; fu un attacco deliberato e metodicamente orchestrato ai fondamenti stessi dell’etica umana. L’obiettivo ultimo del totalitarismo di matrice nazionalsocialista non era quello di eliminare fisicamente gli ebrei, i portatori di handicap, gli avversari politici e tutte le minoranze etniche, il che già di per sé raggiunge lo zenith dell’aberrazione. C’era qualcosa che andava persino oltre. Il nazionalsocialismo puntava a sovvertire quella parte del codice morale su cui si era fondata la modernità europea. Quel codice che aveva insegnato a non uccidere gli innocenti, a proteggere i deboli, a considerare la compassione una virtù.
Il regime lavorò alacremente, oserei dire scientificamente per creare nella coscienza delle persone una “zona grigia” morale dove i confini tra bene e male, colpevole e vittima, carnefice e spettatore, si confondevano e i loro ruoli diventavano interscambiabili. Gli strumenti che permisero questa perversa distorsione cognitiva della realtà furono ovviamente numerosi, ma due in particolare furono utilizzati con feroce determinazione e rivelarono, purtroppo, una straordinaria efficacia.
Il primo fu la corruzione del linguaggio: termini burocratici e neutri vennero usati per mascherare la brutalità delle azioni. Non si parlava di sterminio, ma di “soluzione finale della questione ebraica” (Endlösung der Judenfrage); non di uccisione, ma di “evacuazione” o “trattamento speciale” (Sonderbehandlung). Questo linguaggio disumanizzante da un lato permetteva ai burocrati di compilare moduli e organizzare treni senza sentirsi moralmente responsabili dell’omicidio di massa; dall’altro lato creava nella popolazione non direttamente coinvolta nel progetto di sterminio un filtro, una sorta di barriera protettiva che normalizzava l’eccezionalità della situazione riducendola cognitivamente a mera routine amministrativa, la cui competenza era assegnata alle autorità preposte.
Il secondo strumento fu l’umiliazione delle istituzioni pubbliche tradizionali, dal Reichstag a tutte le più importanti funzioni dello Stato, che vennero svuotate di ogni significato e ridotte a pallida imitazione di sé stesse per supportare il processo di inversione dei valori che il movimento nazista perseguiva su vasta scala. Così, l’etica perversa in cui la crudeltà verso il “diverso” era un dovere, la compassione per le frange deboli della società equivaleva a un tradimento della razza e l’obbedienza cieca alla volontà di Hitler appariva come la virtù suprema a cui ogni cittadino doveva aspirare, trasformarono le istituzioni pubbliche nei garanti di una mostruosa metamorfosi dei valori sociali. Ciò che per secoli era stato considerato male, diventava “bene” per lo Stato.
Questa eclissi dell’etica non fu un effetto collaterale, ma il prerequisito fondamentale per realizzare l’Olocausto. Doveva prima essere annientato il senso morale individuale e collettivo, per poter poi procedere all’annientamento fisico delle vittime.
Al centro di questa sovversione psicologica collettiva vi era il culto della supremazia razziale, l’ideologia tossica che alimentò l’intera macchina dello sterminio. Il nazionalsocialismo non inventò l’antisemitismo, il cui spettro si aggirava per l’Europa da almeno 50 anni frequentando, più o meno velatamente, cancellerie, redazioni di giornali, riunioni di partiti, comizi di piazza, senza disdegnare le dotte pagine di illustri saggisti, né le tribune di eminenti oratori. Non furono Hitler nel Mein Kampf o Alfred Rosenberg nel Mito del XX secolo a creare il mito della razza. Ma di certo il nazismo se ne impadronì portandolo alle estreme conseguenze, trasformandolo cioè da odioso pregiudizio a sistema di governo totalitario fondato su una continua, inarrestabile e interminabile spinta di trasformazione sociale.
Per comprendere il regime nazista bisogna innanzitutto comprendere la sua natura di “movimento” e non di istituzione dotata (o in cerca di) un proprio assetto organizzativo stabile e definito. La prima essenza del “movimento” nazista risiedeva nel fatto che esso non poteva mai, in alcun modo e per nessun motivo fermarsi. Non c’era un punto di arrivo. La “soluzione finale” non era l’obiettivo del movimento, ma il passaggio, o per meglio dire uno dei passaggi di una trasformazione incessante della società che puntava al raggiungimento di una purezza esistenziale mai definitivamente compiuta, in quanto sempre perfettibile. Questa ideologia della tensione continua si basava su alcuni pilastri aberranti:
- Il Mito della Razza Ariana: La costruzione di un’identità collettiva basata non sulla cultura o sulla cittadinanza, ma su una presunta purezza biologica superiore.
- La Demonizzazione dell’ “Altro”: gli ebrei (ma anche i rom, i disabili, gli omosessuali, i socialisti, i comunisti) venivano identificati come antirazze, parassiti sociali, virus da estirpare per garantire la salute del corpo nazionale. Questa narrazione paranoica trasformò un intero popolo in un capro espiatorio per ogni problema reale o percepito.
- La Giustificazione Scientifica: Il regime si avvalse di pseudo-scienziati e leggi (come le Leggi di Norimberga) per dare una parvenza di legittimità e oggettività al proprio razzismo. Questo conferiva all’odio un’aura di verità incontrovertibile.
La responsabilità morale del nazismo e dei suoi alleati risiede nella pianificazione cosciente e ideologicamente motivata del male commesso. Non il raptus di follia di un dittatore, ma l’adesione lucida a un progetto di ingegneria sociale. I gerarchi nazisti, a cominciare dal cerchio magico che si stringeva intorno a Hitler, ma anche i responsabili delle cosiddette formazioni d’élite a cui, di volta in volta, venivano affidati i compiti più abietti, tutti presero decisioni consapevoli, scegliendo attivamente la via dell’odio e dello sterminio, respingendo ogni possibile alternativa etica.
- Oltre l’antisemitismo: il rifiuto del razzismo in ogni sua forma
Se oggi siamo qui è perché proteggere la memoria della Shoah non riguarda solo la protezione del popolo ebraico. Il progetto nazifascista non si limitava agli ebrei, lo abbiamo detto, ma prendeva di mira con altrettanto accanimento e pari crudeltà anche Rom e Sinti, omosessuali, testimoni di Geova, dissidenti politici, disabili fisici e mentali: tutti considerati “vite indegne di essere vissute” (Lebensunwertes Leben).
Per questo, commemorare la Shoah significa alzare una barriera contro ogni forma di razzismo, antisemitismo, xenofobia, omofobia e discriminazione. L’ideologia che portò ai campi di sterminio nacque dalla pretesa di una presunta purezza razziale, dalla paura del diverso, dalla ricerca di un capro espiatorio per i mali della società.
Oggi, quelle stesse tentazioni sono ancora tra noi. Si annidano nel linguaggio dell’odio online, nella retorica che divide il mondo tra “noi” e “loro”, nelle politiche che erigono muri invece di costruire ponti, nella violenza verbale e fisica contro chi è percepito come straniero o diverso.
Ricordare Auschwitz significa impegnarsi a smascherare e combattere queste derive, ogni giorno. Significa riconoscere che il razzismo non è un’opinione, ma un crimine contro l’umanità in potenza. Significa educare all’accoglienza, al dialogo, al rispetto per ogni essere umano, senza distinzione di etnia, religione, genere, orientamento sessuale o abilità.
Ma la Shoah ci costringe anche a riflettere sulla natura della guerra stessa. Quella fu la guerra di sterminio per eccellenza, ma il concetto di “annientamento del nemico” non si è estinto con il Nazismo. Nel corso del Novecento e purtroppo ancora oggi, assistiamo a conflitti in cui i civili, specie se inermi e disarmati, diventano obiettivi primari. E più appaiono deboli, indifesi, innocenti, come ad esempio i bambini, più vengono colpiti. In tal modo essi diventano strumenti per spezzare il morale di una comunità, per cancellare un’identità culturale, per compiere una pulizia etnica.
La commemorazione della Shoah è dunque un monito perpetuo contro tutte le guerre di sterminio, ovunque esse avvengano. È un appello al diritto internazionale, alla protezione dei civili, al ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie fra i popoli. È la condanna assoluta dell’uccisione programmata di civili, che sia perpetrata con i gas o con i droni, con i fucili o con la fame imposta da assedi disumani.
Ma serve anche a ricordarci che dalle profondità di ogni abisso può sorgere una luce tenace e potente: la luce della resistenza umana. La memoria della Shoah non è solo memoria del male, ma anche del bene che si oppose al male. Vi si oppose perché scelse di farlo. E alla fine seppe sconfiggerlo.
È la memoria dei Giusti tra le Nazioni, di coloro che, non ebrei, rischiarono la propria vita e quella delle loro famiglie per salvare anche un solo ebreo. In Italia, come in tutta Europa, ci furono uomini e donne che scelsero il coraggio dell’umanità contro la viltà dell’indifferenza. Il loro esempio ci dimostra che in ogni momento esiste una scelta. Che la storia non è un fiume in piena a cui ci si deve abbandonare, ma è fatta delle singole scelte di ciascuno di noi.
È la memoria della sofferenza dei soldati e delle popolazioni che si immolarono a milioni per distruggere le armate naziste mentre cercavano di invadere la loro terra, ne fermarono l’avanzata, le respinsero indietro e infine le costrinsero a finire sepolte fra le macerie di Berlino in fiamme. È la memoria dei 27 milioni di sovietici morti per resistere all’avanzata delle armate hitleriane dirette alla conquista dello “spazio vitale”. È la memoria della resistenza spirituale e culturale nei ghetti e nei campi di concentramento. Gesti che affermavano: “Voi potete distruggere i nostri corpi, ma non la nostra umanità”.
È la memoria dei sopravvissuti che hanno avuto la forza di tornare dall’inferno e di dedicare il resto della loro vita a testimoniare, a educare, a costruire. La loro voce non è un lamento, ma un insegnamento. Primo Levi, a corollario di quel suo grande documento di testimonianza che troppi giovani oggi non hanno letto e forse nemmeno hanno mai sentito nominare, ci ha lasciato un monito preciso: “È avvenuto, quindi può accadere di nuovo… È questo il nocciolo di quanto abbiamo da dire“.

Sandro Colombi, prima sera del Viaggio nella Memoria durante il suo discorso ai partecipanti

Sandro Colombi, prima sera del Viaggio nella Memoria durante il suo discorso ai partecipanti. (A destra Mariolina Ciarnella, IRASE)

Sandro Colombi, durante l’intervento dell’ospite Gianni Polgar, superstite della Shoah. A sinistra il figlio di Polgar.

