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Olimpiadi e doping: istituire una medaglia alla disonestà?

Poco meno di due settimane fa si sono concluse le Olimpiadi di Parigi 2024 e come spesso è capitato il mondo dello sport professionistico è stato investito dalle polemiche sul doping.

 

Un esempio è la polemica dell’Usada, ricca e potente agenzia nazionale americana, contro la Wada, agenzia antidoping mondiale, per aver lasciato gareggiare 11 nuotatori asiatici di quei 23 beccati con le mani nel barattolo della trimetazidina a Tokyo 2020. Polemica statunitense a cui l’agenzia mondiale ha replicato prontamente tirando fuori la mancata sospensione dello sprinter americano Erriyon Knighton, assolto dall’Usada dopo l’utilizzo di una delle più potenti sostanze dopanti.

 

Anzi, la Wada è andata oltre l’accusa sostenendo un complotto internazionale. Infatti, l’agenzia sostiene che la sua controparte americana, l’Usada, abbia violato il Codice Internazionale Antidoping, permettendo a sportivi sotto uso di sostanze proibite di continuare a competere come parte di un programma volto a scoprire gli atleti dopati delle nazioni avversarie. Quindi doparsi per smascherare dopati… che eroi.

 

Se facciamo un salto indietro nella storia del doping, per trovare il primo caso bisogna tornare nel lontano 1904 a St. Louis. Sebbene all’epoca non ci fossero controlli antidoping, il maratoneta Thomas Hicks, in difficoltà durante la gara, ricevette iniezioni di stricnina e bevve cognac per arrivare al traguardo. Giusto un bicchierino per allentare la tensione…

 

Il caso più controverso invece lo troviamo tra i fenomeni dei 100 metri piani alle Olimpiadi di Seul 1988. Qui Ben Johnson, il velocista canadese, dominò una delle gare più falsate di sempre, infrangendo il record del mondo e umiliando il suo storico rivale Carl Lewis.

 

La sua vittoria sembrava inattaccabile, un trionfo assoluto. Ma pochi giorni dopo il campione, trovato positivo a diverse sostanze, venne squalificato. Tuttavia, nel corso degli anni si scoprì che anche gli altri partecipanti avevano fatto uso di doping. Lo stesso atleta americano Lewis ammise che nel 1988 ai Trials di Indianapolis era risultato positivo tre volte per efedrina, pseudoefedrina e fenilpropanolamina.

 

La scusa utilizzata da Lewis fu: “”Facevano così con tutti, chiudevano un occhio, a quei tempi le cose andavano in quella maniera, centinaia di atleti sono stati coperti e perdonati. Non sono stato né un favorito né un privilegiato.” Peccato però che in quella famosa gara Johnson venne squalificato a vita mentre gli altri, compreso l’americano, passarono per derubati.

 

Insomma, le Olimpiadi sono un palcoscenico dove gli atleti cercano di superare i propri limiti anche se significa superare quelli imposti dall’Agenzia Mondiale Antidoping. Un gioco al rialzo tra chi inventa nuove sostanze e chi cerca di individuarle.

 

Visto che il problema doping sembra irrisolvibile, dovremmo forse istituire una medaglia alla disonestà?

 

Luca Colafrancesco, Ufficio comunicazione UILPA

 

Roma, 23 agosto 2024