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«La sicurezza sul lavoro è una battaglia che non possiamo perdere». Intervista a Sandro Colombi, Segretario generale della Uilpa

Sandro Colombi, Segretario generale UILPA

È passato poco più di un anno dall’esplosione della pandemia. Dai quadri della Uilpa dislocati nelle amministrazioni e sul territorio che idea si è fatto sul grado di efficacia delle misure anti-Covid negli uffici pubblici?

Grosso modo il quadro è a macchia di leopardo. Mi spiego. In alcune amministrazioni sono stati adottati con attenzione i dispositivi di sicurezza, mentre in altre si sono registrate difficoltà. In alcuni casi addirittura forti difficoltà: penso, per esempio, ai ritardi nella consegna delle mascherine chirurgiche o all’allestimento delle barriere parafiato. A questo aggiunga che la pubblica amministrazione è composta da enti assai eterogenei tra loro. E dunque i sistemi di protezione andavano e vanno tutt’ora adattati a situazioni molto diverse. Per esempio tantissimi impiegati dello Stato non stanno seduti dietro una scrivania. O se ci stanno è per una quota parziale della loro attività. In generale direi che in diversi casi c’è stato un deficit di coordinamento. D’altra parte si è affrontata all’improvviso una nuova situazione e gli stessi protocolli per la sicurezza delle varie amministrazioni vedevano notevoli differenze tra di loro. Inevitabilmente tutto ciò ha comportato problemi.

“Sul fronte della sicurezza anti-Covid la situazione nella pubblica amministrazione

è a macchia di leopardo. Alcune realtà si sono rivelate attente, altre meno.”

  I quadri della Uilpa dislocati nelle amministrazioni e sul territorio come hanno valutato il grado di percezione sull’importanza delle misure anti-Covid da parte dei dirigenti e dei vertici amministrativi?  È proprio questo il problema. Nei primi mesi della pandemia ci siamo trovati di fronte a dirigenti che affrontavano il problema della diffusione dei contagi in maniera preoccupata e altri in maniera assai blanda. Non li si può biasimare più di tanto perché in fondo riflettevano la divisione del Paese, e persino del mondo della scienza, tra chi sosteneva che si trattava di un’influenza un po’ più forte del solito e chi invece lanciava l’allarme per l’arrivo di un virus pericolosissimo. Dunque ci siamo trovati dinanzi a dirigenti che dicevano “tutti a casa” ed altri che, viceversa, dicevano “tutti in ufficio”. Per nessuno, e tantomeno per il sindacato, è stato facile gestire questa situazione. Mi creda.

 

Indipendentemente dall’emergenza Covid, il tema della sicurezza nei luoghi di lavoro non può prescindere dal ruolo e dalle agibilità che la legge prevede in favore del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza. Qual è oggi la situazione nelle amministrazioni statali?

Grazie all’azione incessante del sindacato, negli ultimi decenni la presenza del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS, n.d.r.) si è finalmente diffusa in tutte le strutture della pubblica amministrazione. E c’è anche una maggiore consapevolezza da parte degli stessi lavoratori della funzione essenziale che tali rappresentanti sono chiamati a svolgere anche come testimoni della cultura della sicurezza nei luoghi di lavoro. Per questo è impegno centrale del sindacato che in tutte le amministrazioni il RLS riceva una formazione adeguata e un costante aggiornamento. Del resto, i compiti che l’art. 50 del decreto 81/2008 assegna al RLS sono davvero notevoli e richiedono un impegno e una professionalità che non si possono improvvisare.

Lei mi chiede qual è oggi la situazione? Varia molto da struttura a struttura. Ricevo spesso segnalazioni da parte di RLS che lamentano scarso coinvolgimento da parte delle amministrazioni, specie per quanto riguarda la consultazione preventiva sulla valutazione dei rischi e l’elaborazione dei piani di prevenzione.

Un altro punto critico che a volte mi segnalano i nostri quadri è una certa difficoltà nel rapporto operativo tra RLS e rappresentanti per la sicurezza di parte datoriale, i cosiddetti Responsabili Servizio Protezione e Prevenzione, i quali tendono – non sempre, per fortuna – ad interpretare la propria funzione più che altro sotto l’aspetto dell’adempimento formale. E poi c’è il problema della designazione dei RLS, che dovrebbe avvenire attraverso elezioni a suffragio universale. Ma possono anche essere scelti all’interno della Rappresentanza Sindacale Unitaria e in effetti è così che avviene nella maggior parte dei casi. In tal modo qualche volta nascono contrasti interni, sovrapposizione di ruoli, difficoltà nei rapporti con le controparti o con altri organismi di partecipazione, ad esempio, i Comitati Unici di Garanzia. Tutte situazioni che come sindacato dobbiamo saper affrontare e gestire con sensibilità, imparzialità ed equilibrio per tutelare l’esercizio del diritto alla sicurezza di tutti i lavoratori.   

 

Lei ha parlato del coinvolgimento del RLS nella valutazione dei rischi. Ma quali sono i rischi più diffusi per i lavoratori che operano nelle amministrazioni statali?

Una risposta univoca è impossibile, perché il novero delle attività che svolgiamo all’interno delle nostre amministrazioni e delle loro articolazioni su tutto il territorio nazionale è vastissimo. Farei fatica a trovare un rischio, connesso a una particolare attività lavorativa, che potremmo definire tipico dell’intera pubblica amministrazione Però… a ben pensarci… forse sì, c’è un fattore di pericolo che attraversa trasversalmente tutto il lavoro pubblico. Anzi, sa cosa le dico? Che in un certo senso è il pericolo del quale si parla meno, ma che produce i danni più evidenti. Si chiama stress lavoro-correlato e, come ci insegna la letteratura scientifica più avanzata in materia di sicurezza, rappresenta uno dei fattori di rischio più pericolosi per l’integrità psico-fisica dei lavoratori. Vede, per rilanciare la pubblica amministrazione si parla tanto di innovazione, di digitalizzazione…. Tutto giusto. Ma forse dovremmo anche cominciare, anzi ri-cominciare a parlare di carichi di lavoro e di benessere organizzativo. Elementi che chiamano in causa la qualità delle condizioni di lavoro nelle strutture della pubblica amministrazione, il mancato coinvolgimento dei lavoratori nelle scelte che li riguardano, l’autoreferenzialità della dirigenza e della burocrazia, il clientelismo e il senso di non responsabilità dei vertici politici… Qui si apre un discorso che ci porta molto, molto lontano. Mi invita a nozze, sia chiaro, ma… decida lei.

“Lo stress lavoro-correlato rappresenta uno dei fattori di rischio più pericolosi per l’integrità psico-fisica dei lavoratori.”   Direi che per oggi è meglio restare su temi più vicini all’attualità. Il 6 aprile governo, imprese e sindacati hanno firmato il Protocollo nazionale per la vaccinazione nei luoghi di lavoro. Protocollo che però sembra rivolto essenzialmente alle imprese del settore privato. Non pensa che sarebbe opportuno estendere anche alla pubblica amministrazione la possibilità attuare piani aziendali per la predisposizione di punti di vaccinazione anti-Covid nei luoghi di lavoro per somministrare i vaccini alle lavoratrici e ai lavoratori che ne fanno richiesta?

Intanto vorrei ricordare che il protocollo sulle vaccinazioni è stato firmato contestualmente all’aggiornamento del protocollo del 24 aprile del 2020 sulle misure per il contrasto alla diffusione del Covid negli ambienti di lavoro.  Un accordo, quest’ultimo, che nei mesi scorsi si è rivelato decisivo per consentire al sistema produttivo del nostro Paese di continuare l’attività, pur nel pieno dell’emergenza sanitaria. Per il settore pubblico, le iniziative da assumere per la prevenzione e la sicurezza dei dipendenti sono state definite nel protocollo sottoscritto con la Funzione Pubblica il 3 aprile 2020.

Quello delle vaccinazioni è un tema complesso, perché si intreccia con l’esigenza di dare una puntuale e corretta attuazione al Piano vaccinale anti-pandemia predisposto dal Commissario straordinario per l’emergenza Covid. Come è perfettamente spiegato nella Premessa dell’accordo sulle vaccinazioni, la diffusione dei vaccini su tutto il territorio nazionale è un fattore “decisivo” nella lotta al virus. Non è solo la tutela della salute collettiva ad essere in gioco, ma anche la ripresa di tutte le attività sociali e produttive. Ripresa che tutti auspichiamo, ma che dovrà avvenire in piena sicurezza.

Personalmente ritengo che i datori di lavoro pubblici, se chiamati in causa, siano nelle condizioni di realizzare piani vaccinali per i propri dipendenti nel rispetto dei principi definiti nel Protocollo del 6 aprile. E ritengo che possano farlo anche grazie al supporto e al contributo determinante del sindacato. Penso però che, così come è avvenuto per i protocolli sulle misure di prevenzione e contrasto al Covid nei luoghi di lavoro, occorra uno strumento ad hoc per traslare e adattare i contenuti dello stesso Protocollo sulle vaccinazioni alle specifiche realtà del settore pubblico. Realtà che, dal punto di vista logistico, strutturale e organizzativo, sono molto diverse da quelle delle imprese private.

“Nel rispetto del Protocollo del 6 aprile i piani vaccinali per le amministrazioni pubbliche

devono prevedere il contributo del sindacato.”  

 

Si riferisce a qualcosa in particolare?

Sì, le faccio qualche esempio. Come prima cosa penso al punto 2 del Protocollo dove si parla di predisposizione di piani vaccinali in forma aggregata fra più datori di lavoro. La domanda è: come si applica una norma del genere nella pubblica amministrazione? Penso poi al punto 6, dove si parla dei “costi” dei piani vaccinali a carico dei datori di lavoro: ma come la mettiamo con gli organi di controllo della spesa pubblica? Penso al punto 12, dove si parla di possibili convenzioni con strutture sanitarie private nell’ambito della bilateralità: ma dov’è la bilateralità nel settore pubblico? Penso, infine, al punto 15, quello relativo all’equiparazione del tempo di vaccinazione all’orario di lavoro: immagino le complicazioni burocratiche per applicare da noi una cosa del genere. Insomma, nella pubblica amministrazione abbiamo molte armi spuntate rispetto alle imprese del settore privato. Ma è una sfida che siamo pronti a raccogliere, se ce ne verrà data l’opportunità.  

 

A proposito di sfide, nella pubblica amministrazione sono previste da qui ai prossimi anni centinaia di migliaia di nuove assunzioni. Al di là di come ci si attrezzerà in tema di sicurezza, quando il sindacato parla di un piano coordinato per tali assunzioni che cosa intende?   

Si intendono problemi molto seri, a iniziare da un ricambio generazionale ormai non più rinviabile dopo oltre vent’anni di salassi in termini di numero di dipendenti. Salassi che hanno portato a un incredibile invecchiamento della forza-lavoro pubblica italiana, tra le più anziane d’Europa. Cosa che in epoca di pandemia aggiunge un problema alla già problematica situazione degli organici svuotati. Mi permetta di sottolineare che nonostante l’età avanzata i dipendenti pubblici hanno affrontato la sfida del virus con uno spirito da ventenni. Non hanno avuto paura di nulla, hanno continuato ad andare sul posto di lavoro, d’emblée hanno iniziato a lavorare da casa con le loro attrezzature tecnologiche, non hanno fatto mancare per un solo momento i servizi alla collettività. La macchina dello Stato ha funzionato grazie alla loro abnegazione, al loro coraggio, alla loro capacità di adattamento dinanzi all’emergenza sanitaria. Stiamo parlando di oltre tre milioni di persone che si sono mosse compattamente con un senso di servizio verso i cittadini che ha scritto una pagina indelebile a onore degli statali. Un esercito di ultracinquantenni che ha messo da parte gli acciacchi, ha sfidato il Covid e soprattutto grazie a questi attempati lo stiamo vincendo.

Ma non posso nascondere che si tratta di un esercito che proprio per l’età avanzata presenta delle fragilità. Non possiamo continuare a sottoporlo a rischi per la propria salute. Ecco perché, ragionando in termini di sicurezza, occorre urgentemente un ricambio generazionale. Ma un ricambio ragionato, programmato. E passo allo specifico della sua domanda con un esempio, giusto per capirci. Se abbiamo bisogno di 10mila persone la politica non può venirci a dire che devono essere solo 10mila informatici. Sicuramente vanno assunti gli informatici per realizzare davvero una pubblica amministrazione 2.0. Ma vanno assunti anche gli ispettori del lavoro, gli ispettori dell’Inps e dell’Inail, i medici e gli infermieri degli enti di riferimento, i funzionari dell’Agenzia delle entrate e alle prefetture, i motoristi al Ministero della Difesa e così via. In altre parole, occorre un coordinamento rispetto ai reali bisogni delle amministrazioni. Coordinamento che deve essere il risultato di un confronto tra sindacati e governo nell’interesse della collettività.

“Il ricambio generazionale nella pubblica amministrazione deve essere effettuato

in base a un piano che contempli le specifiche esigenze di ogni singola struttura.”  

 

Lei ha partecipato alla campagna indetta dalla Uil “Zero morti sul lavoro”. Cosa vi aspettate da questa iniziativa?

In un Paese civile è intollerabile che ci sia un numero così elevato di morti sul lavoro. L’anno scorso sono stati 1.270. Complice il Covid, si dirà. È vero, ma la media annuale prima della pandemia era di oltre 1.000 morti l’anno. Una cifra inaccettabile. E per quanto mi riguarda considero inaccettabile anche un solo morto sul lavoro, figuriamoci mille. Per questo motivo chiediamo un coordinamento coi sindacati per le nuove assunzioni nel pubblico impiego. Oggi sappiamo che non ci sono sufficienti ispettori del lavoro, dell’Inps e dell’Inail per il controllo delle aziende. Mi correggo: dire che sono insufficienti è dire poco. Questa categoria è stata letteralmente falcidiata. In poche parole, c’è stata per anni la volontà politica di non effettuare controlli alle imprese se non occasionalmente e con intervalli ultradecennali. Il che ha significato, de facto, quasi nessun controllo.

Va tenuto presente che in oltre trent’anni di neoliberismo è passata l’idea secondo la quale è giusto che l’imprenditore pensi solo al proprio profitto personale e non si assuma alcuna responsabilità nei confronti della società. A cui peraltro deve tutto, a iniziare dagli ingenti finanziamenti dello Stato. Secondo questa logica i lavoratori sono oggetti da usare e gettare a piacimento. Cosa ha prodotto questa ragione antitetica? Maggiori disuguaglianze, diffusa povertà, disoccupazione, disperazione, crisi economiche continue, devastazione dell’ambiente, nessuna prospettiva per i giovani. Ma al di là dei risultati catastrofici delle politiche neoliberiste, la cosa grave è che questo modo di pensare ha contaminato parecchi manager di Stato. I quali, per dimostrare di essere al passo coi tempi, hanno perso di vista la responsabilità sociale di qualsiasi attività economica, pubblica o privata che sia. Questo smarrimento ha comportato un numero allucinante di morti sul lavoro e il ritiro dello Stato dalla sua missione di controllo e di tutela del cittadino-lavoratore. È ora di invertire la rotta. Ecco cosa ci aspettiamo. E stia certo che non saremo spettatori passivi.

 

Roma, 12 aprile 2021 

A cura dell’Ufficio comunicazione Uilpa

In allegato l’intervista in PDF scaricabile.

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