Segretario, per le famiglie italiane il costo della bolletta energetica è salito alle stelle, i prodotti alimentari subiscono pesanti rincari, crescono disoccupati e precari, mentre le morti sul lavoro non si fermano. Ma non ci avevano detto che dopo la pandemia niente sarebbe più stato come prima?
Probabilmente intendevano dire che sarebbe stato peggio di prima. E mi pare che i fatti stiano dando loro ragione: è decisamente peggio di prima. Una discesa che si blocca innanzitutto affrontando il nodo dell’occupazione. Cosa che più volte il sindacato ha chiesto al governo. Perché non c’è alternativa: o si crea lavoro o assisteremo a una crescita della disoccupazione, della fuga dei cervelli e più in generale al declino del Paese.
Però le statistiche dicono che il PIL sta crescendo in maniera superiore alle previsioni.
È vero. Ma credo che sarebbe necessario dettagliare meglio questo tipo di informazioni indicando dove e in che senso si cresce. Le criticità che lei ha elencato nella domanda precedente sono anch’esse informazioni inconfutabili. Che tuttavia danno un quadro assai diverso rispetto ai tanto sbandierati segnali di ripresa. Come si spiega che di fronte all’aumento del PIL sono aumentati in maniera vertiginosa i nuovi poveri? Aumento del PIL significa anche aumento della ricchezza. Dove va a finire questa ricchezza? Noi sindacalisti siamo a contatto quotidiano con i lavoratori, con i cittadini e ogni anno vediamo aumentare la povertà, la mancanza di lavoro e la sofferenza sociale.
“L’aumento del PIL non significa equa distribuzione della ricchezza.”
Nonostante il Covid l’economia è ancora sulla scia della crescita senza occupazione?
La tendenza è questa. E per tale motivo l’anno scorso – quando ormai era chiaro che la crisi sanitaria avrebbe acuito la crisi economica – avevamo insistito sulla necessità di intervenire in maniera strutturale a favore dell’occupazione. In caso contrario non c’è ripresa. La cosa da fare è molto semplice: da un lato, determinare con precisione quanti posti di lavoro ha fatto perdere la pandemia; e, dall’altro, quanti se ne possono recuperare sia col PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, n.d.r.) sia con iniziative governative. Per noi ripresa significa aumento dei posti di lavoro e dunque benessere per tutta la società. Ovviamente parlo di lavoro dignitoso con retribuzioni eque e diritti garantiti attraverso il rispetto delle regole fissate nei contratti collettivi firmati dai sindacati rappresentativi.
Le selezioni di 2.800 esperti per attuare il PNRR negli enti locali del Sud hanno lasciati scoperti molti posti e la stessa sorte ha toccato il maxiconcorso al Comune di Roma. Cos’è che non funziona nel nuovo sistema di reclutamento del personale per la Pubblica Amministrazione?
Il fatto che a monte non ci sia stata una programmazione condivisa con i sindacati. Intendo dire che se prima dei concorsi le amministrazioni avessero fatto una mappa dei fabbisogni di personale i flop che lei ha menzionato non ci sarebbero stati. Invece si è proceduto alla mera richiesta delle qualifiche per l’attuazione del PNRR senza una distribuzione adeguata e coerente con i fabbisogni. Detto in termini molto pratici: se un ministero richiede altissime professionalità, chi possiede tali competenze è difficile che sia disoccupato perciò non mette a repentaglio la propria posizione per i bassi stipendi erogati dalla pubblica amministrazione e per di più per assunzioni a tempo determinato. Dinanzi a questa débâcle di recente il Ministro della Funzione Pubblica ha ventilato la possibilità di coinvolgere le organizzazioni sindacali. Non vorrei che arrivassimo quando i buoi sono scappati dalle stalle. Ossia, quando ormai sarà impossibile fare una programmazione seria perché saremo superati dal velocissimo andamento delle cose.
“Va fatta al più presto una mappatura dei fabbisogni di personale delle singole amministrazioni.”
Lei ha accennato alle nuove assunzioni a temine per la realizzazione del PNRR. Allora vorrei chiederle: secondo lei, la massa di precari che entrerà nello Stato migliorerà la qualità del servizio pubblico?
Questo è un problema che dovremo affrontare seriamente. È evidente che un posto di lavoro a tempo determinato è meglio di nessun posto di lavoro. Ma se l’ambizione è quella di far ripartire il Paese è soprattutto nella Pubblica Amministrazione che non c’è bisogno di precariato. C’è invece bisogno di assunzioni a tempo indeterminato altrimenti non ci sarà alcun rilancio della macchina dello Stato. Il lavoro nella Pubblica Amministrazione non può che fondarsi su basi stabili se si vuole che il dipendente dia il meglio di sé e che sia stimolato a migliorare le proprie competenze professionali. In tal senso vanno snelliti i meccanismi di progressione delle carriere. Abbiamo bisogno di una Pubblica Amministrazione più moderna e più agile ma deve essere chiaro che modernità e agilità non si ottengono col precariato di massa. Il lavoro a tempo determinato provoca incertezza e scarso senso di appartenenza. Se uno sa che fra tre anni sarà cacciato quale sarà la sua dedizione? Io nel 1987 sono stato assunto nella Pubblica Amministrazione e ho giurato sulla bandiera la mia fedeltà alla Repubblica. È un atto di cui vado ancora oggi fiero. Il giuramento è un atto che ha un valore fondante perché ti fa sentire parte di una comunità dove, se si vuole, si può trascorre tutta la propria vita lavorativa. Il giuramento rafforza la consapevolezza di essere in maniera permanente e stabile al servizio della collettività e del bene comune.
“I contratti a termine non favoriscono il senso di appartenenza alla Pubblica Amministrazione.”
La transizione digitale della Pubblica Amministrazione comporterà grossi investimenti. Ma l’esperienza insegna che l’introduzione di nuove tecnologie non comporta di per sé una semplificazione della vita degli utenti. Tutt’altro. Ritiene che il sindacato debba farsi carico di questo problema?
Sì, perché noi siamo il sindacato dei cittadini e delle persone. Pertanto ci domandiamo, per esempio, come mai quando si parla di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione si parla di grandi banche dati, cibersicurezza, intelligenza artificiale, blockchain o di nuove sofisticate architetture digitali che dovrebbero connettere le informazioni riguardanti i cittadini. Tutte cose importantissime, sia chiaro. Ma il Paese reale è composto da milioni di persone che hanno necessità di accedere quotidianamente ai servizi digitali della Pubblica Amministrazione per cose molto semplici e molto concrete. Per esempio, aggiornare uno stato di famiglia, accertare una posizione lavorativa, variare una posizione contributiva, richiedere l’estratto di un atto giudiziario, contestare una notifica, ritirare una multa presso il comando dei vigili urbani, rinnovare la carta di identità scaduta, comunicare una variazione di intestazione di una fattura, ritirare la cartella clinica presso una struttura sanitaria, conoscere le opportunità lavorative di un determinato settore lavorativo in una certa area geografica…
La fermo Segretario. Il suo concetto è chiaro: sono i servizi digitali ordinari quelli di cui i cittadini hanno soprattutto bisogno per vivere meglio. Ma questi servizi spesso non funzionano bene. Perché?
Perché le piattaforme dedicate sono confuse, affollate di funzioni e poco intuitive. Le pubbliche amministrazioni sembrano dimenticarsi sia della gran quantità di anziani presenti nel nostro Paese sia delle tantissime persone non anziane che tuttavia fanno fatica a comprendere il linguaggio e il modo di ragionare dei sistemi on-line. Il risultato è che, malgrado l’aumento dei servizi digitali, sono ancora moltissimi coloro che preferiscono rivolgersi all’aiuto di amici o parenti, per navigare in Rete al posto loro oppure pagare terzi per il servizio che chiedono.
Ancora una volta ci troviamo di fronte al solito problema della scarsa programmazione?
Certamente. Perché oltre ai documenti digitali si continuano a richiedere anche quelli cartacei? Perché la nostra identità digitale annega in una marea di password e di codici identificativi che dobbiamo cambiare in continuazione, per non essere esclusi dall’accesso ai servizi per i quali ci eravamo registrati? La tecnologia dovrebbe semplificare la vita degli utenti non complicarla. E, vorrei ribadire, che il problema non riguarda solo certe fasce di età. Quanti cittadini, che pure sanno utilizzare il computer e le app, si trovano in difficoltà perché i servizi digitali risultano poco accessibili e le piattaforme di difficile utilizzo?
“Troppo spesso le piattaforme digitali non sono amichevoli e non facilitano la vita dei cittadini.”
Trattativa all’Aran. Le prime bozze dei documenti in discussione non vanno in direzione della piena contrattualizzazione dello smart-working in ogni amministrazione. Secondo lei è perché quando di parla di flessibilità il datore di lavoro pubblico non vuole rinunciare al suo ruolo di padre-padrone?
Questo tema fa il paio con il precedente. Ossia, si fanno grandi annunci a cui talvolta seguono grandi investimenti e poi gli aspetti operativi, quelli che comportano la funzionalità e il buon andamento del processo, vengono trascurati. Lo smart working è un’occasione straordinaria per migliorare la qualità del lavoro e, di conseguenza, i servizi all’utenza. Finora è stato utilizzato in forma emergenziale durante la pandemia e lo si può considerare come una sorta di home working. Adesso deve diventare una forma di svolgimento flessibile dell’attività lavorativa regolata da una contrattazione in cui si stabiliscono diritti e doveri per ottenere proprio quei risultati che lo smart working si prefiggeva con la legge istitutiva: migliorare allo stesso tempo la qualità della vita del dipendente e la qualità dei servizi per gli utenti. Se non ci sarà una seria contrattazione amministrazione per amministrazione, all’interno del quadro di regole definite nel contratto nazionale, lo smart working rischia, tra l’altro, di diventare un benefit che ogni dirigente concede a discrezione, magari con i soliti criteri paternalistici e clientelari che ben conosciamo, piuttosto che uno strumento finalizzato al reale miglioramento dell’organizzazione del lavoro negli uffici.
“Lo smart working rischia di diventare un benefit concesso in maniera discrezionale.”
Il principio “Zero morti sul lavoro” passa anche attraverso una razionalizzazione del corpo degli ispettori del lavoro. Qual è la sua opinione in proposito?
Il corpo degli ispettori del lavoro e l’attuale struttura organizzativa vanno implementati e valorizzati. Dobbiamo avere la certezza che lo Stato faccia tutto quanto è possibile per ripristinare controlli che permettano di ridurre, abbattere, annullare le morti sul lavoro. Non è un’utopia. È possibile se si attuano i controlli con fermezza e se si applicano le leggi che già esistono in materia di sicurezza sul lavoro e che, vorrei ricordare, in Italia sono tra le più avanzate al mondo. Non è immaginabile che lo Stato non abbia come priorità quella di evitare le morti bianche. Noi siamo una Repubblica fondata sul lavoro e se lo Stato non lo tutela anche in termini di sicurezza viene meno a un principio fondante della Costituzione.
A cura dell’Ufficio comunicazione UILPA
Roma, 4 agosto 2021