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Guido Melis. Gli eredi di Monsù Travet nel cyberspazio: problemi e prospettive

In Blade Runner 2049[1] l’Agente K (interpretato da Ryan Gosling) doveva effettuare una ricerca impossibile per reperire vecchi documenti che lo riguardavano. Entravano dunque in scena gli archivi. Sì, esattamente gli archivi, forse la più antica forma di conservazione della memoria: la parola stessa (“archivio”) ci suggerisce ancora oggi l’idea di un passato remotissimo.

Eppure, nel film gli archivi, quegli archivi avveniristici messi in scena, rappresentavano la quint’essenza della tecnologia del futuro. Nella fiction il protagonista vi penetrava audacemente. Si calava nelle viscere di tre diversi sistemi archivistici: il primo, era una grande struttura di forma monumentale atta a custodire tutti i documenti precedenti il catastrofico blackout che aveva cancellato sulla terra la memoria digitale recente; il secondo, era l’archivio di un’impresa specializzata nel costruire i replicanti; il terzo, il più interessante, era infine un archivio di codici genetici, che raccoglieva e catalogava tutti i DNA sia di umani che di replicanti, dunque gestiva miliardi e miliardi di dati personali. Il primo archivio appariva vagamente simile agli archivi che conosciamo: scaffalature in primo piano, nelle quali però si conservavano non buste piene di carte, bensì lastre ottiche che solo l’archivista sapeva rendere leggibili; il secondo custodiva le sue informazioni in sfere, pure ottiche; il terzo archivio era un immenso database di dimensioni universali ma tanto concentrate che i dati potevano essere consultati in pochissimi secondi. La consultazione avveniva non leggendo i documenti ma proiettando lo stesso protagonista in una simulazione interattiva della realtà.

Non so quanto questa messa in scena di un futuro prossimo venturo possa essere ritenuta attendibile. Probabilmente noi non la vedremo. Certo però, per stare solo a quel che oggi ci circonda, si ammetterà che il lavoro, chiamiamolo così, alla scrivania, sia esso pubblico o privato, sta velocemente cambiando in tutto il modo tecnologicamente avanzato. Stiamo entrando – nel nostro piccolo – anche noi in una nuova dimensione.

Cambiano i contenuti del lavoro, la sua tempistica, l’ambiente nel quale si svolge, i supporti tecnici che lo realizzano e, per conseguenza, muta la mente stessa del lavoratore, la sua coscienza. Gli scienziati ci dicono che nel futuro prossimo (quasi presente, ormai) le trasformazioni avverranno più rapidamente di quanto sia per noi ragionevole attenderci. Come incideranno questi mutamenti sulla realtà del lavoro qual è oggi? Non sappiamo immaginarlo. Come saranno, nel nuovo mondo, i lavoratori? Controlleranno i processi ipertecnologici come in fondo è successo nell’età delle industrializzazioni? O li subiranno passivamente diventandone come automi i docili strumenti?

Per quanto concerne la burocrazia, e in particolare quella preposta al lavoro nelle pubbliche amministrazioni, alcuni segnali sono già leggibili in modo abbastanza chiaro sin da oggi. Il primo di essi è che la forma antica del lavoro d’ufficio, a lungo perpetuatasi sul vecchio modello ottocentesco, quel lavoro cioè che assomigliava alla catena di montaggio di fabbrica, è oggi largamente obsoleta.

Faccio un passo indietro. Come lavorava l’impiegato pubblico nell’ufficio di Monsù Travet, il proverbiale burocrate piemontese inventato e messo in scena nel 1862 dal commediografo Vittorio Bersezio? Egli – puntualissimo – iniziava la sua giornata lavorativa a un’ora precisa del mattino; accedeva al suo piccolo ufficio, magari condiviso con uno o più colleghi; attivava il rudimentale sistema di riscaldamento della stanza, appendeva con cura il cappotto all’attaccapanni, si dava l’immancabile sfregatina alle mani intirizzite dal freddo; sedeva poi nella sua seggiola, poggiando le natiche sul cuscino portato da casa che addolciva la rigidità del sedile fornito dall’amministrazione; sfoderava la sua penna e traeva fuori il calamaio; apriva il faldone delle pratiche del giorno; leggeva e poi scriveva, a volte copiava, minutava, correggeva, ricopiava in bella copia in quella calligrafia che gli era valsa mezzo punto in più al momento dell’assunzione. Procedeva così sino alla frugale pausa pranzo (nel 1862 si sospendeva alle 12.30 e si riprendeva intorno a due ore dopo; la sera, nella Torino capitale di Travet, si staccava verso le 19).

Le pratiche arrivavano sul tavolo portate (immagino con una certa flemma) da un commesso a ciò adibito. Ma il funzionario alla scrivania non doveva leggerle tutte per intero: non era suo compito intervenire sull’intero atto amministrativo, ma soltanto su una parte di esso, quella che corrispondeva al segmento della procedura che era stato assegnato al suo ufficio. Già, perché nell’organizzazione del lavoro, larvatamente pre-tayloristica, che stiamo descrivendo ogni ufficio aveva una sua mansione separata, ogni impiegato il suo compito, e nessuno “lavorava” la pratica nel suo insieme: ognuno si occupava della parte che gli era assegnata.

Solo a lavoro finito la pratica, racchiusa nel faldone via via più corposo, viaggiava verso un altro corridoio del Ministero, un altro ufficio, un’altra scrivania, un altro collega cui sarebbe spettato lavorare su una sezione diversa dell’atto. La collazione di tutti questi micro-interventi, una sorta di prelavorati in fondo, era compito dei superiori. Una volta effettuata, avrebbe determinato la completezza della pratica. L’atto, via via rivisto e autorizzato, sarebbe risalito attraverso i protocolli interni su per la scala gerarchica, assumendo forma definitiva: sino a raggiungere il mitico “firmiere”, il grande registro da sottoporre al signor ministro perché questi apponesse, con la sua firma, il sigillo finale.

Lavorare burocraticamente significò a lungo, per Travet e per i suoi successori, applicarsi come rotelle passive a una catena, a un procedimento costituito come una via crucis il cui percorso era segnato da varie “stazioni”, corrispondenti alle direzioni generali o divisioni o sezioni o singoli uffici partecipanti a seconda delle rispettive funzioni alla redazione dell’atto amministrativo[2].

Ora proviamo a immaginare, spogliandolo delle sue vesti ottocentesche, come lavorerebbe un erede del Monsù Travet negli anni Duemila inoltrati. Egli intanto non starebbe rinchiuso nell’ufficio separato, come un carcerato nella sua cella isolata, ma piuttosto (come si fece del resto sin dai primi del Novecento nelle banche e in altre grandi organizzazioni) sarebbe collocato in un vasto open space, semmai diviso da paratie mobili, così da poter vedere e consultare facilmente i colleghi. Non userebbe certo la penna e il calamaio e neanche la macchina dattilografica del Novecento ma un computer di ultima generazione. Non acquisirebbe le informazioni scartabellando vecchi fascicoli d’archivio ma le riceverebbe già elaborate.

Sullo schermo del computer, che accenderebbe appena seduto alla scrivania, avrebbe il testo su cui lavorare quel giorno. Vi lavorerebbe in forma digitale. Vi interverrebbe però (ecco il punto chiave) simultaneamente ad altri impiegati, che sui loro schermi lavorerebbero al medesimo atto. Le correzioni ai testi, una volta autorizzate da chi di dovere, sarebbero istantaneamente introdotte e cancellerebbero per sempre le precedenti versioni senza necessità di minute, cancellazioni a penna o altre forme simili di lavorazione manuale. La rete dei computer interconnessi funzionerebbe come un unico grande ufficio, facendo perdere le tracce della azione del singolo impiegato.

Lavorare in rete è il primo punto fermo dell’amministrazione non del futuro ma già del presente. Questo si risolve nell’obiettivo chiave, ripreso da ultimo anche nell’agenda recente di Renato Brunetta[3], di introdurre dappertutto il digitale. Non solo le tecniche del digitale, si badi: ma la sua forma mentis, le modalità di pensiero e di azione che ne derivano. Il digitale non come mezzo, com’era la macchina da scrivere agli inizi del secolo scorso, ma come fine. Il lavoro come è e come sta trasformandosi nel tempo del digitale: cioè l’interconnessione costante di tutti gli attori, i ritmi di attività imposti in modo neutro dalla velocità dei collegamenti in rete, l’automatismo non consapevole che ti fa digitare prima ancora che tu abbia deciso cosa devi digitare (il tempo della scrittura digitale è immensamente più rapido di quella delle forme di scrittura che l’hanno preceduta).

La spersonalizzazione del lavoro era già insita nella precedente forma burocratica, nella quale Monsù Travet ripeteva come un automa gli stessi gesti, nei medesimi tempi, secondo la stessa successione, magari sotto l’occhiuta sorveglianza del capo ufficio. Tuttavia, adesso, essendo i tempi, i gesti e le successioni dettati e registrati dalla macchina, il lavoro si svolge secondo sequenze prestabilite, tassative, senza che necessariamente debba impegnare la mente. Riflessi condizionati in luogo di pensiero autonomo. L’impiegato diventa un pezzo del meccanismo.

Naturalmente con ciò non si vuole abbracciare una rappresentazione apocalittica della realtà in atto (la memoria, sennò, andrebbe subito alla proverbiale gag di Chaplin-Charlot alle prese con la macchina industriale moderna)[4]. Lasciamoci alle spalle la nostalgia per il vecchio modello di ufficio. Indietro, nelle rivoluzioni tecnologiche epocali come l’attuale, non si torna mai; e i movimenti luddisti (quelli che predicavano nell’Ottocento inglese la demolizione a colpi di piccone delle prime macchine responsabili di portar via il lavoro all’uomo) risultano sempre storicamente perdenti.

Tuttavia, il prendere atto di come si stia evolvendo rapidamente il processo che si è descritto, e l’interrogarsi su quali potrebbero esserne gli esiti finali dovrebbe essere compito di una classe dirigente consapevole; e nel caso anche di un sindacato preoccupato di governare senza subire passivamente i processi della modernizzazione. Ciò significa che del lavoro digitale si devono poter conoscere, controllare e eventualmente contrattare finalità, modalità di esecuzione, tempistica, riflessi sulla salute; e rischi, anche. E che perciò nella progettazione del lavoro deve avere parte attiva chi ne dovrà poi garantire l’esecuzione.

A che punto siamo, in particolare in Italia, sul terreno dell’introduzione del digitale e della sua razionalizzazione virtuosa, diciamo così “controllata”? Facile rispondere: abbastanza indietro. Intanto perché nella galassia rappresentata dalle pubbliche amministrazioni attuali (Stato nelle sue varie espressioni, enti pubblici autonomi, Regioni, Comuni, altri enti locali ecc.) non dappertutto la presenza del computer sulle scrivanie si traduce in digitalizzazione, cioè in una riformulazione del processo produttivo nelle forme e nel linguaggi del digitale; permangono zone ancora caratterizzate dal computer-macchina da scrivere, o prassi che prevedono paradossalmente la stampa degli atti e documenti prodotti per via informatica, o zone miste che vedono convivere l’una e l’altra forma di lavoro.

A ciò si aggiunge l’inadeguatezza del personale che è troppo anziano, non formato, impreparato, analfabeta informatico (Brunetta è andato alla disperata ricerca di ingegneri, tecnici informatici, esperti di reti: ha cercato di reclutarli ma per svariate cause non c’è riuscito). In un recente articolo[5] il ministro Vittorio Colao[6] e il presidente dell’Acri (Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio SpA), Francesco Profumo, ci dicono che in Italia 26 milioni di persone non hanno alcuna competenza digitale; e che siamo al diciottesimo posto su 27 nella classifica della conoscenza digitale. Di più: siamo particolarmente indietro (paradosso nel paradosso) nella fascia dei giovani tra i 24 e 34 anni.

Ma ancora non basta: mettiamo nel conto la inadattabilità degli spazi di lavoro, l’assenza di supporto tecnico in loco, la diffidenza atavica delle burocrazie con tutto ciò che – per essere innovativo – apra la porta al rischio dell’imprevisto o anche solo costringa a modificare prassi lavorative a lungo sperimentate e introiettate dal personale. Lavorare stanca, diceva Cesare Pavese: ma lavorare innovando stanca molto di più, perché costringe il lavoratore a una rieducazione interiore del proprio corpo e soprattutto della mente.

In questa situazione il governo Draghi e in particolare il ministro Brunetta hanno dovuto operare, tenendo conto dell’urgenza e della ristrettezza dell’orizzonte temporale dell’esecutivo. E lo hanno fatto secondo una logica che si può definire complessiva e coerente. Hanno innanzitutto favorito l’interconnessione tra soggetti pubblici, rinverdendo il principio-base (mai rispettato) che per legge non si possono chiedere ai cittadini informazioni delle quali l’amministrazione sia comunque già in possesso.

Un investimento di 900 milioni di euro è stato previsto per le infrastrutture digitali, finalizzato a realizzare la migrazione dei dati oggi dispersi in mille frammenti verso un unico ambiente cloud, accessibile a tutti i soggetti della rete. Un altro investimento, di 1 miliardo di euro, servirà per trasferire basi dati e applicazioni investendo le amministrazioni locali (le quali saranno sostenute nel processo di digitalizzazione dallo Stato attraverso apposite task force). Un terzo, di 650 milioni, sarà utilizzato per creare un unico profilo digitale (piattaforma digitale nazionale dati, sportello digitale unico ecc.). Un quarto, per 620 milioni di euro, servirà interamente a garantire la cyber security. Un quinto (610 milioni) solo per digitalizzare le grandi amministrazioni centrali: Inps, Inail, alcuni Ministeri tra cui Giustizia, Interno, Guardia di finanza e Consiglio di Stato[7]. 200 milioni di euro infine saranno indirizzati alla alfabetizzazione digitale dei cittadini anche attraverso una rete di Centri di facilitazione digitale per aiutare tutti a stare on-line.

Il progetto è – come si vede – molto ambizioso ma vuole essere anche unitario e articolato. Per metterlo in pratica sono stati costituiti dei raccordi tecnici a loro volta espressione del Ministero per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale. A differenza di quanto accaduto nel passato i ministeri sono stati tutti coinvolti, in modo che non si verifichi più il deteriore fenomeno delle politiche isolazionistiche e spesso in contraddizione l’una con l’altra (sebbene bisognerà vedere quanto le amministrazioni abbiano consapevolmente aderito, e non si siano invece limitate a una accettazione passiva dell’innovazione). Il timone – certo – è centrale, come in genere per il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR)[8], tanto centrale da generale le critiche delle autonomie – ma gli obiettivi proposti sono tali da non ammettere stazioni intermedie di mediazione o – peggio – di contrattazione dell’intervento.

Il punto debole però c’è, ed è abbastanza facile da individuare. Si tratta di scommettere un po’ alla cieca sui prossimi anni. Ci domandiamo: sarà possibile, utilizzando principalmente i fondi del PNRR ma anche programmando altre risorse secondo una logica coerente, di perseguire con costanza l’obiettivo finale della digitalizzazione diffusa? Con le risorse previste nel PNRR – ci dicono ancora Colao e Profumo – potremmo balzare alle posizioni di testa tra i paesi europei. Ma dobbiamo sapere che le infrastrutture (stanno partendo le gare) non basteranno da sole se non si coinvolgeranno i cittadini. Ciò, dunque, non implicherà solo una salda guida tecnico-specialistica: esigerà dietro questa una costante ispirazione politica.

Ed è qui che si pone la domanda chiave: saprà il nuovo governo garantire la continuità con quello appena dimessosi e perseguire con la stessa determinazione i medesimi obiettivi?

L’Italia è un paese ben singolare, lo si dice spesso. I governi non durano da noi più di un anno e mezzo in media, i ministri (anche quelli preposti a settori tecnico-specialistici, i cosiddetti “ministri tecnici”) mutano di persona con una frequenza incomparabile ad altri paesi, i progetti di riforma si susseguono senza mai essere portati a termine e anzi per lo più essere abbandonati da chi succede a coloro che li hanno elaborati. Siamo all’inizio di una grande rivoluzione tecnologica che dovrà necessariamente cambiare molte cose: il lavoro pubblico, innanzitutto; il personale che vi sarà impegnato; le modalità di selezione di quel personale e la sua formazione; l’articolazione dei soggetti istituzionali interessati dalla piramide gerarchica alla rete paritaria. Le rivoluzioni possono riuscire oppure no, ma in ogni caso hanno bisogno di chi le guidi.

Sull’Agente K di Blade Runner non abbiamo dubbi, come in tutti i film finirà bene. Ma riuscirà il governo prossimo venturo, qualunque esso sia, a portare a compimento il processo virtuosamente avviato?

 

L’autore

Guido Melis (Sassari, 1949), ha studiato a lungo la storia della pubblica amministrazione italiana. Docente universitario (è andato in pensione di recente dall’Università La Sapienza di Roma), ha scritto numerosi libri, tra i quali ricordiamo: La burocrazia, il Mulino, Bologna, 1998; L’Amministrazione centrale dall’Unità alla Repubblica: le strutture dei dirigenti, il Mulino, Bologna, 1992 (un censimento storico da lui curato); Lo Stato negli anni Trenta. Istituzioni e regimi fascisti in Europa, il Mulino, Bologna, 2008; La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista, il Mulino, Bologna, 2018 (che gli è valso il Premio Viareggio per la saggistica). Soprattutto è l’autore di una fortunata Storia dell’amministrazione italiana, il Mulino, Bologna, 1996, seconda ed. aggiornata 2020. Dirige dal 1995 la rivista “Le Carte e la Storia”. Nella XVI legislatura (2008-2013) è stato deputato.

  

Cultura sociologia, n. 1, gennaio 2023. Rivista dell’Associazione Italiana Sociologi Italiani. Supplemento a sociologiaonweb.it

 


 

[1] Film del 2017 che proseguiva la fortunata serie inaugurata nel 1982 dal regista Ridley Scott.

[2] Sul lavoro burocratico mi permetto di rinviare a vari miei studi pubblicati negli anni scorsi: da La cultura e il mondo degli impiegati, in L’amministrazione centrale, a cura di S. Cassese, Torino, Utet, 1984, pp. 301 ss., a Il mestiere di burocrate, in Storia delle professioni in Italia tra Ottocento e Novecento, a cura di A. Varni, Bologna, il Mulino, 2002, pp. 91 ss., a Gli impiegati pubblici, in Impiegati, prefazione di Sabino Cassese, a cura di Guido Melis, Torino, Rosenberg & Sellier, 2004, pp. 15 ss.

[3] Renato Brunetta, uomo politico, già socialista aderì poi a Forza Italia, da cui si è di recente distaccato. È stato per due volte ministro per la Riforma della pubblica amministrazione: da maggio 2008 a novembre 2011 (governo Berlusconi); e dal febbraio 2021 al settembre 2022 (governo Draghi).

[4] Si allude al film Tempi moderni, regia di Charlie Chaplin, 1936.

[5] La rivoluzione digitale parte da donne e giovani, in “Corriere della Sera”, 9 settembre 2022, p. 36. Vittorio Colao, dirigente di azienda, amministratore delegato della Omnitel, poi di Vodafone (per il Sud Europa), quindi di RCS Group, quindi di nuovo a Vodafone come Ceo, è stato ministro per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale nel governo Draghi (febbraio 2021-settembre 2022). Francesco Profumo, professore universitario, già presidente del Cnr, è stato ministro dell’Istruzione nel governo Monti (2011-2013) ed è dal 2019 presidente dell’Acri.

[7] Su queste operazioni bisogna essere cauti: alcuni sono progetti che vanno avanti da anni, e in certi casi hanno portato buoni frutti come è accaduto nell’Inps, ma altri, come in quelli del Ministero della giustizia hanno evidenziato problemi.

[8] Il PNRR è il documento governo italiano approvato dalla Commissione europea in cui sono definiti gli investimenti per 191,5 miliardi di euro relativi al programma Next generation Eu finalizzato a rilanciare le economie europee andate ulteriormente in crisi con lo scoppio della pandemia Covid-19.

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