di Guido Melis
Giaime Pintor (1919-1943) crebbe a Cagliari in una famiglia borghese ma si formò a Roma, ospite nella bella casa dello zio Fortunato, bibliografo raffinato e bibliotecario al Senato, casa dove terminò gli studi liceali. A Roma ebbe la fortuna di frequentare un ambiente stimolante (Fortunato, tra l’altro, sebbene antifascista era legatissimo a Giovanni Gentile), conoscendo e essendo amico tra gli altri del quasi coetaneo Lucio Lombardo Radice e, per suo tramite, entrando in contatto col gruppo dei giovani comunisti romani (Antonio Amendola, Paolo Bufalini, Aldo e Ugo Natoli).
Viveva frattanto le tensioni morali e le irrequietezze della “generazione dei Littoriali” (i giovani cresciuti nel fascismo ma insofferenti della piega non più “rivoluzionaria” che ai loro occhi aveva assunto il regime). Negli anni della guerra, pur prestando servizio militare, divenne un collaboratore assiduo della casa editrice Einaudi. Antifascista, aderì alla resistenza. Morì per lo scoppio di una mina il 1° dicembre 1943 a Castelnuovo al Volturno, mentre cercava di passare le linee alleate per dare il suo contributo nell’Italia occupata dai nazifascisti.
In questo breve brano, tratto da uno dei suoi scritti di quello stesso anno 1943, un mese avanti la morte, e poi pubblicato postumo nei “Quaderni italiani” di New York (IV, 1944), egli definiva lo Stato italiano fascista “una macchina che funzionava malissimo”.
Lo stato totalitario moderno è una macchina che si muove con poche leve e pochissime persone. Chi non è in possesso di queste leve potrà svolgere un’azione più o meno feconda, ma è destinato a spezzarsi appena giunto a un certo limite, è condannato a restare irrimediabilmente lontano dalla iniziativa politica. In Italia lo stato fascista era una macchina che funzionava malissimo, i suoi congegni erano rozzi e imperfetti, e a ciò si deve se, a differenza di quanto avvenne in Russia o in Germania, larghe sfere della vita pubblica rimasero in sostanza immuni dalla sua azione.
Tuttavia questa macchina imperfetta sarebbe bastata a spezzare ogni resistenza interna se il fascismo non avesse commesso l’errore di lasciare alcune delle leve di comando in mano a forze apparentemente controllate, in realtà estranee. Dopo vent’anni di regime la più importante di queste forze era ancora la monarchia; e al vecchio istituto giustamente condannato da tutti gli italiani responsabili e privo di ogni consistenza e prestigio morale, era riservato il compito di dare la spinta finale all’edificio marcio del fascismo, di assumersi cioè l’iniziativa che nessuna forza sana in Italia poteva rivendicare.
Giaime Pintor, Il sangue d’Europa, Torino, Einaudi, 1950, pp. 226-227.