Da un paio di giorni circolano nei media i numeri diffusi nell’ultimo rapporto ARAN sulle retribuzioni dei pubblici dipendenti. Leggendoli, si ha l’impressione che i lavoratori del pubblico impiego contrattualizzato siano dei facoltosi benestanti che percepiscono retribuzioni reali ben superiori a quelle fissate dei contratti collettivi.
Secondo l’analisi dell’Agenzia governativa le “retribuzioni di fatto” negli ultimi sei anni hanno registrato incrementi molto superiori a quelli dei CCNL. Per le Funzioni Centrali “la crescita è risultata del 6,8% a fronte del 3,48% riconosciuto dai contratti”. Più del doppio! Ve ne eravate accorti?
Ma il vero miracolo secondo l’ARAN è avvenuto nel triennio 2019-2021, quando le “retribuzioni di fatto” nelle Funzioni Centrali sarebbero aumentate del 9,41% contro il 4,19% riconosciuto dal CCNL.
Colpisce il tempismo perfetto con cui queste cifre vengono diffuse nel pieno di una vertenza che vede un blocco importante di rappresentanze sindacali mobilitate per protestare contro l’esiguo aumento contrattuale offerto dal governo.
Forse sarebbe stato più giusto spiegare che nella “retribuzione di fatto” rientrano anche voci la cui entità può variare moltissimo da un anno all’altro e che, per lo più, sono legate ad esigenze delle amministrazioni e/o alle pessime condizioni organizzative degli uffici.
Come, ad esempio:
- lo straordinario, conseguenza del crollo occupazionale e dell’invecchiamento demografico, per cui le persone sono costrette a ‘coprire’ il lavoro di due, tre, a volte quattro colleghi;
- le indennità previste da norme di legge per determinate qualifiche professionali o per lo svolgimento di importanti attività istituzionali di rilevanza interna ed esterna, tra cui quelle funzionali alla realizzazione del mitico PNRR;
- le somme erogate per incarichi di responsabilità, turnazioni, reperibilità, lavoro festivo, mansioni rischiose, attività disagiate, ecc.;
- gli incrementi legati alle progressioni orizzontali e verticali, che rappresentano il fulcro della contrattazione integrativa, ma che possono restare ferme per anni (come in effetti è successo) prima di sbloccarsi rimettendo in circolo un po’ di risorse.
Non c’è nulla di strano se la media delle retribuzioni “di fatto” supera la media delle retribuzioni contrattuali. Qual è il problema? Avviene anche nel privato, ed è un bene per tutti che sia così. E in ogni caso nel privato l’andamento delle retribuzioni di fatto non influisce minimamente sull’entità dei rinnovi contrattuali.
Quando si tratta di proteggere la tenuta del potere d’acquisto dei salari, si guarda al salario fisso e stabile, non alle quote variabili. O almeno: questa è l’idea che dovrebbe emergere da una analisi delle retribuzioni dei dipendenti pubblici oggettiva e libera da condizionamenti politici.
Sandro Colombi, Segretario generale UIL Pubblica Amministrazione
Roma, 31 ottobre 2024